INTERVISTA. “Qui a Musicultura ho trovato l’eredità di Fabrizio”: Fabio Frizzi a La Controra 2019

Mercoledì 19 Giugno Fabio Frizzi è tornato a Macerata, come ospite di Musicultura. Proprio lo scorso anno, l’artista è salito sul palco dello Sferisterio, per ricordare suo fratello Fabrizio con gli amici del festival. Chitarra alla mano, a La Controra, l’artista si è esibito in una rivisitazione dei più celebri brani del cinema italiano. Alla redazione di Sciuscià ha rilasciato questa toccante intervista in cui parla anche del rapporto con il fratello.

Con l’avvento del digitale e con la produzione sempre più cospicua delle serie tv, il cinema sta progressivamente perdendo la sua leadership. A tal proposito, come vedrebbe un suo eventuale passaggio definitivo dal grande al piccolo schermo?

Verso la fine anni ’90 ho avuto la fortuna incontrare il regista Vittorio Sindoni, che mi ha coinvolto per circa dieci di anni in una fiction, che io ho reinterpretato esattamente con lo stesso metodo che utilizzo lavorando per il cinema. Ogni puntata, l’ho considerata un film a sé stante. Anche se oggi si sta andando verso altre frontiere, io continuo a difendere il grande schermo, per la sua importanza.

Per anni ha lavorato al fianco del celebre regista Lucio Fulci. C’è, nel panorama cinematografico italiano contemporaneo, una figura che possa essere considerata l’erede spirituale del suo cinema?

Lucio ha lasciato la sua eredità lontano dalla sua terra. Anche se nel nostro Paese ci sono cineasti molto validi, questo è un Paese un po’ sterile nell’accettare o, più semplicemente, nell’ascoltare le esigenze e le idee dei giovani. Il cortometraggio ne è un esempio, tanto apprezzato all’estero quanto sottovalutato in Italia. Dunque il semino piantato da Lucio, col cinema di genere artigianale – tanto amato oggi – sta crescendo, ma di più all’estero.

L’arrangiamento di una colonna sonora avviene dopo un primo assetto di montaggio o la musica viene concepita prima, durante l’ideazione del film insieme al regista. Qual è il tipo di approccio più in voga, oggi?

Dipende molto dalle situazioni: ci sono delle volte in cui ti chiamano per lavorare, a film girato, e hai modo di vedere il montaggio. Se il regista fosse un sarto, la sceneggiatura sarebbe il cartamodello del film, un pezzo fondamentale dell’opera. Questo è l’aspetto più delicato: ogni volta hai un riferimento nuovo e anche una brillante idea può essere considerata non valida. Servono umiltà e voglia di lavorare, in una qualsiasi professione. Il mio è un mestiere difficile, ma dà grandi soddisfazioni.

Quale potrebbe essere la colonna sonora perfetta per Musicultura?

Un mio brano, che  potrei comporre in futuro. Mi piace molto com’è organizzato questo festival e lo spirito che si respira nell’aria, che permea completamente la città. Sarebbe bello scrivere un inno per i 30 anni di Musicultura. Senza dubbio, dovrebbe trattare il tema dell’amore.

Fabrizio, un amico fedele di Musicultura. C’è un momento o un aneddoto legato al festival, che suo fratello le ha raccontato?

Mi raccontò di essere venuto a Musicultura, il primo anno della sua conduzione, con un grande punto interrogativo in tasca. Eravamo già stati insieme allo Sferisterio un po’ di tempo prima, per uno spettacolo. Sin da subito mi ha parlato benissimo di questa realtà. Ha sempre vissuto il festival con grandissimo entusiasmo, quasi come se lo considerasse un regalo da conservare gelosamente. Durante la malattia, uno dei suoi rammarichi maggiori era proprio la paura di non riuscire ad arrivare alla settimana finale del concorso.  Qui a Macerata ho trovato l’eredità di Fabrizio: la gente mi ricorda lui, come anche la città, tra i pochi luoghi che mi fanno vivere bene la mancanza di mio fratello. Lui aveva la caratteristica di essere una persona buona, capace di farsi carico delle cose belle e dare importanza a tutto quello ciò che merita di avere risalto. Voi avete perso un grande amico, io un grande fratello. Ce lo ricordiamo sempre, lui è qui!

INTERVISTA. Franz Di Cioccio a Musicultura: “Vi racconto come abbiamo vissuto il Rinascimento della musica italiana”

A parlare della Premiata Forneria Marconi, pietra miliare della storia del Progressive Rock e leggenda internazionale fin dagli anni ’70, è Franz Di Cioccio, frontman e batterista della band, ospite de La Controra e della prima Serata Finale di Musicultura; mercoledì 19 Giugno, l’artista ha raccontato le tappe del Rinascimento della musica italiana e di quando nel ’74 registrò un disco live tra il verde e i grattaceli, nell’Hyde Park di New York. Poco prima dell’incontro con il pubblico al Palazzo Conventati, Di Cioccio ha rilasciato questa intervista alla redazione di Sciuscià.

Vi esibite senza sosta dagli anni ’70, siete reduci dall’intenso tour mondiale “Emotional Tattoos tour”, che ha fatto tappa in Giappone, in America, nel Regno Unito e nel nostro Paese. Come accoglie il pubblico internazionale la vostra musica?

Bene, abbiamo abituato il pubblico tanto tempo fa alla nostra musica. Difatti, abbiamo iniziato presto a suonare all’estero, pensando fosse troppo riduttivo esibirci solo nel nostro Paese, considerando che il confronto con altre persone ci avrebbe offerto ulteriori possibilità di crescita. Siamo incuriositi dalla continua ricerca di stimoli e suoni: è la chiave del mestiere di musicista. Mano a mano questa strategia si è consolidata, di pari passo al nostro confronto con più tipologie di ascoltatori. Il coronamento della scelta di suonare all’estero è stata la vincita, lo scorso anno, del titolo di Band Internazionale all’International Prog Awards, dopo un contest del Prog Magazine inglese, rivolto a lettori di tutto il mondo. Ci capita spesso di cantare in italiano, fuori dal nostro Paese. Infatti “Emotional Tattoos” è stato registrato nella doppia versione. Nonostante questo, nell’ultimo concerto londinese abbiamo cantato in lingua originale per la melodia, la dolcezza e la poesia di alcuni testi.

Una carriera al fianco di De André, la vostra. I brani di Faber appartengono anche a questa nostra società, cinica e disincantata. In che modo, oggi, è possibile raccontare quelle tematiche cantate da Fabrizio, che continuano a essere ancora attuali?

Il nostro incontro con De André è stato un evento eccezionale, nato da una mia intuizione. In America abbiamo constatato che i generi sono rispettati e non vengono discriminati, perché chi fa musica fa parte del tessuto sociale e culturale del Paese: nascevano infatti collaborazioni molto interessanti tra cantautori e band; basti pensare a Jackson Browne con gli Eagles o Bob Dylan con i The Band. Il pubblico italiano però non era abituato a questi incontri e a questi approcci alla musica. La PFM aveva già lavorato con Fabrizio per “La buona novella”; un giorno ci venne ad ascoltare a Nuoro e ci invitò a pranzo. Ne approfittai per fargli una proposta indecente, prendere coraggio e fare quello che nessuno in Italia aveva mai fatto. Inizialmente titubante, vista la sua natura ostinata e contraria, disse “Belin, è pericoloso!? allora lo faccio!”. Abbiamo messo a sua disposizione un patrimonio musicale. Tutto questo non ha segnato solo la storia della nostra discografia, ma anche il senso della musica in Italia, dimostrando che la condivisione artistica, nella nostra ricerca e sperimentazione, avrebbe dato un grande apporto alla diffusione della poetica dei suoi testi all’interno delle canzoni.

La fruizione e la produzione della musica subiscono continuamente evoluzioni. In che modo vi approcciate ai cambiamenti, sempre più frequenti, del mercato musicale?

Non credo nel mercato musicale, propenso soltanto alla vendita dei dischi, magari di quelli più orecchiabili. Confido però nel talento delle persone. Non esiste un genere che ti fa vendere con assoluta sicurezza; esiste la capacità dell’artista, che dà la giusta carica all’animo. A discapito dei fenomeni indotti, quelli spontanei sono più duraturi perché più liberi. Non c’è una regola per arrivare al “successo”, participio passato del verbo succedere. Prima bisogna produrre un bel disco; solo quando è successo, allora arriva il successo.

La vostra storia è segnata da tanta musica e innumerevoli collaborazioni. Qual è il prossimo progetto della PFM? 

Quest’anno abbiamo fatto la tournée “PFM canta De André Anniversary”, perché spesso le cose belle in Italia non vengono ricordate. Eppure, ci sono state 45 date sold out, 6 delle quali solo a Milano. Abbiamo suonato con rigore e con maestria, ma soprattutto con passione. Fabrizio è come un’autostrada: ti fa viaggiare dove vuoi, sapendo che sarà un viaggio lungo. Il prossimo progetto? Fare un disco diverso, quindi non sapere cosa riserverà il domani. Nel futuro c’è l’intrigo, che manca nella replica di una cosa che ha già il profumo di successo. Se scaviamo attraverso le emozioni, tra i ricordi e tra i viaggi, arriverà un’idea nuova: quello sarà il prossimo album!

Quale consiglio dareste agli otto vincitori di Musicultura, per vivere una carriera premiata e fortunata come la vostra?

Uno dei consigli più semplici: essere quello che si è e mai quello che si vuol sembrare. Per fare heavy metalnon basta comprare un chiodo e suonare la chitarra bassa; l’hanno già fatto. Bisogna raccontare ciò che ci fa gioire o soffrire. Non tutti i sogni vengono subito a galla; qualcuno diventerà realtà inaspettatamente.

INTERVISTA. A La Controra di Musicultura, Lidia Ravera racconta la letteratura dell’amore

Fervente femminista, rivoluzionaria e penna prestigiosa della letteratura italiana contemporanea, la scrittrice Lidia Ravera è approdata a La Controra, per raccontarsi attraverso un’emozionante lettera che ha scritto per la sorella, scomparsa 26 anni fa, con l’inedito format “Le parole che non ti ho detto”. Con una lettura a cuore aperto, la Ravera, continua a parlare, attraverso la forza della scrittura, con l’amata sorella, raccontando anche i passaggi fondamentali della sua vita: il rapporto con la religione, la maternità inaspettata, i progetti, di cui alcuni ancora in cantiere.

Dall’assessorato alla cultura e alle politiche giovanili alla finale del Premio Strega 2008 fino all’ultimo romanzo distopico “Gli Scaduti” (2018), emerge il ritratto di una donna istrionica e combattente che ha sempre tenuto alto il suo pensiero attraverso una sola unica arma: la scrittura.

In “L’Amore che dura” definisce la scrittura come ‘l’unica forma possibile di espressione dell’inesprimibile’. Quanto si rafforza un testo con la musica?

Moltissimo, perché la musica alza la temperatura emotiva, consentendo ad altre parti dell’essere umano di lievitare liberamente. Con la musica, quindi, non si è più solo testa, cervello e attenzione critica ma si riesce a toccare la sfera sublime dell’emozione, difficilmente raggiungibile con la sola scrittura.

La sua è una preziosa voce nel documentario di Paola Columbia “Femminismo”. Le battaglie per la conquista dei diritti non sono mancate, ma ancora oggi assistiamo a tragedie consumate dentro le mura domestiche. Qual è, secondo lei, l’espressione artistica che più, tra le altre, riesce a sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione?

Ancora e sempre la letteratura, poiché rappresenta un esercizio di empatia: attraverso la scrittura, si cercano di capire le ragioni e ci si mette dal punto di vista degli altri, della vittima e del carnefice. Un buon libro consente di comprendere la meccanica alla base di queste tragedie. Io ho una fiducia sconfinata nella letteratura proprio perché passa attraverso un esercizio dell’attenzione culturale, intellettuale ma anche spirituale. Ho scritto un monologo che si chiama “A me non era mai piaciuto”, e ho usato questo strumento per cercare di capire le ragioni profonde degli atteggiamenti dei protagonisti, e di conseguenza degli uomini. Una delle funzioni chiave della letteratura è mantenere viva la compassione, un lavoro che noi scrittori e scrittrici ci dobbiamo accollare.

La scrittura è per lei una protagonista indispensabile per restare al mondo. Nel caso di “Sorelle”, mette in scena un suo testo molto intimo. Com’è stato ritrovarsi nel ruolo di spettatrice della propria stessa vita?

Lavoro con il materiale della mia vita come qualsiasi scrittore fa da sempre. In particolar modo ho scritto due racconti autobiografici: il primo è “Sorelle”, che ho deciso di scrivere dopo la sua scomparsa. Dovevo guardare in faccia a questo dolore immenso e distanziarlo; è stata una scelta obbligata. In un dialogo mai interrotto tra me e lei, il libro però rintocca qualcosa che è comune a tutti, cioè la nostra vulnerabilità, la nostra fragilità e quanto l’amare qualcuno ci espone al dolore, sia che si ami un uomo, un figlio, una sorella o un padre. Soltanto chi non ama nessuno non soffre, ma è un prezzo alto però da pagare, una vita senza amore è miserabile. Il secondo scritto autobiografico nasce, invece, su commissione, quando sono imprevedibilmente rimasta incinta senza averlo deciso. All’epoca venivo considerata una femminista di quelle cattive, senza nessun desiderio femminile e distante dall’idea di maternità. “Stampa Sera” mi chiese un articolo su questa scelta di diventare madre. Riportai un buon elaborato, piacque molto, tanto che un dirigente della Bompiani mi chiese di farne un libro e io scrissi “Bambino mio”. È un inno alla maternità, che ancora adesso fa qualche vittima. Non è più in circolazione ma lo fotocopio e lo regalo a qualche giovane coppia di amici che solitamente, entro l’anno, rimane incinta.

In “Sorelle”, in cosa lo spettatore si sente più emozionato? Nel ripercorrere la scrittura o nello spettacolo teatrale?

Non lo so. Da “Sorelle” è stato tratto uno spettacolo teatrale nel 2006 con Lina Sastri e Patrizia Zappa Mulas. É una lettera alla sorella quella che leggo oggi, quì a Macerata. Rintocca qualcosa che è comune a tutti, cioè la nostra vulnerabilità, la nostra fragilità e quanto l’amare qualcuno ci espone al dolore, sia un uomo, un figlio, una sorella, un padre. Soltanto chi non ama nessuno non soffre. È un prezzo alto però una vita senza amore è miserabile. Io racconto questo rapporto unico tra sorelle, diverso dall’amicizia perché si è come due rami dello stesso albero. Si può divergere ma la radice è comune. Io sciaguratamente avevo un rapporto talmente bello con mia sorella, morta quando ha compiuto 46 anni, che continuo a parlarle. È un dialogo, mai interrotto, proprio grazie la scrittura.

Ne “Gli scaduti” racconta di una società che allontana tutti coloro che hanno raggiunto il 60esimo anno d’età, per permettere ai giovani di realizzarsi. Secondo lei, oggi, manca lo spirito d’iniziativa dei giovani oppure la società odierna non è ancora pronta ad un cambio generazionale?

Nessuna delle due cose. Per l’universo de “Gli scaduti” ho trovato ispirazione dalla mia irritazione per una parola usata da Matteo Renzi, “rottamazione”, riferita agli esseri umani. Questo ha messo in moto il desiderio di raccontare questa società in cui un cretino tra i 30 e i 40 anni prende il potere e ne costituisce una nuova in cui il ricambio generazionale è forzato. Io penso che ciascuno debba fare la sua parte, non si può non tener conto del fatto che la vita si è allungata di 30 anni; arriviamo alla terza età in condizioni fisiche spesso smaglianti ed intellettuali (siamo l’ultima generazione formata sui libri e non su Wikipedia, il che ci offre qualche vantaggio). Perché, allora, rottamare una generazione così stimolante? Troviamo spazio per tutti. Dai giovani mi aspetto che rovescino il tavolo a spallate, tocca loro fare la rivoluzione. Io, da anziana attiva, mi occupo di riforme. Vorrei che voi vi occupaste di rivoluzioni.

Qual è, secondo lei, il punto di forza di un festival come Musicultura, che continua a mantenere vivo lo spirito della canzone d’autore e esalta l’esibizione dal vivo?

Ha il grandissimo merito, che condivide con molti festival, di esaltare la dimensione dal vivo. Esci di casa e consumi cultura, emozioni, musica, parole, insieme agli altri. Non è come illuminare lo schermo e sentire musica da Spotify, vi è una differente modalità di consumo che, se venisse meno, a me mancherebbe molto. Quando ero in età universitaria organizzavo concerti pop, e, con i circoli del proletariato giovanile, il salto delle transenne per quei giovani che non potevano permettersi il biglietto, perché ho sempre sostenuto che la musica era di tutti. Un passato di cui ovviamente sono fiera. Negli anni ’70 ho co-diretto con Giaime Pintor una rivista musicale, Muzak: recensivamo, tra i tanti, artisti come Frank Zappa. Questo festival ha l’enorme vantaggio di unire la musica alle parole, che si completano e andrebbero sempre deliberate insieme.

Il programma della prima serata di Musicultura 2019: PFM, il Quinteto Astor Piazzolla, Coma Cose e Giordano Bruno Guerri

Si apre domani giovedì 20 giugno il sipario sulle serate finali di Musicultura, condotte da Enrico Ruggeri e Natasha Stefanenko, con tanti ospiti internazionali e l’attesa sfida finale tra gli otto vincitori finalisti del Festival 2019.

Il programma prevede le esibizioni di:

  • PFM – Premiata Forneria Marconi
  • il Quinteto Astor Piazzolla
  • Coma Cose
  • Giordano Bruno Bruno Guerri

E degli 8 vincitori del concorso:

  • Luca Bocchetti
  • Francesco Lettieri
  • Lo Straniero
  • Lavinia Mancusi
  • Paolantonio
  • Gerardo Pozzi
  • Enzo Savastano
  • Francesco Sbraccia

Tutte le serate finali saranno trasmesse in diretta radio su Rai Radio 1 e in diretta Facebook sulla pagina ufficiale di Musicultura.

Informazioni e biglietti per assistere alle serate finali alla pagina dedicata su questo sito.

INTERVISTA. Valerio Calzolaio a La Controra: “Musicultura è sempre l’ospite d’onore a Macerata”

Dopo aver scritto Ecoprofughi Libertà di migrare, Valerio Calzolaio torna ad affrontare il tema attualissimo dell’immigrazione nel suo ultimo libro “Migrazioni. La rivoluzione dei Global Compact” (2019) e decide di farlo in anteprima a La Controra di Musicultura 2019. Nella splendida cornice del cortile di Palazzo Ciccolini, in un’atmosfera intima e raccolta, il giornalista ha parlato del libro dialogando con il Rettore dell’Università Politecnica delle Marche Sauro Longhi e con la Professoressa di Diritto processuale penale dell’Università di Macerata Lina Caraceni. Ad accompagnare le discussioni sull’argomento, le suggestioni musicali curate da Chopas della Compagnia di Musicultura.

È politico e accademico, ma anche giornalista e scrittore. Ha sempre avuto la  passione per la letteratura? Scrivere è stata un’esigenza più tarda, dovuta magari a finalità espressive?

Ho sempre avuto un interesse per la scrittura e la letteratura, due passioni strettamente collegate. Sono abituato a leggere molto e a scrivere tanto, fin da ragazzino.

Dopo aver pubblicato Ecoprofughi Libertà di migrare, ha scritto Migrazioni la rivoluzione dei Global Compact, che costituisce un’introduzione interdisciplinare allo studio storico del fenomeno migratorio. Da cosa nasce l’interesse per questo tema e come mai la volontà di riproporlo anche nel suo ultimo lavoro?

A causa di impegni istituzionali ho girato il mondo per una ventina d’anni, presenziando ad alcune conferenze dell’ONU che vertevano su problematiche come cambiamenti climatici, desertificazione, biodiversità, e sui programmi ambientali sia nazionali, che internazionali. In questi incontri si annunciavano sempre esodi forzati di milioni di persone dall’Africa, o da altri continenti, verso l’Europa. Studiando il fenomeno, mi sono reso conto che i migranti che si  spostano a causa dei mutamenti del clima ci sono sempre stati. Fin da Ecoprofughi ho ragionato su queste tematiche e sto continuando a farlo.

Come abbiamo accennato, l’immigrazione è al centro del dibattito sull’attualità. Crede che la letteratura e la scrittura possano dare una visione più globale del fenomeno?

Tutti, al giorno d’oggi, hanno paura. Ognuno di noi resta turbato da ciò che non conosce. Detto ciò, bisognerebbe immaginare quel che prova un povero ragazzo, solo, costretto spesso a lavori forzati che, dopo aver viaggiato e aver attraversato il mare, si ritrova in un ambiente ostile e poco amichevole. Il timore nei confronti degli “altri” non viene mai preso in considerazione, pur essendo insito in tutti noi, anche negli animali. Dobbiamo ragionare sulla paura, non negarla; è un sentimento giusto quando è generata da astio e da comportamenti poco rispettosi. In questo momento ci sono 5 milioni di stranieri che hanno la residenza in Italia, ma allo stesso tempo abbiamo 5 milioni di italiani all’estero con la doppia cittadinanza: questo melting pot c’è sempre stato e c’è. Bisognerebbe considerare che chi arriva nel nostro Paese può essere per noi una preziosa risorsa e può dare un contributo. Abbiamo così tanti problemi (ride). La letteratura sicuramente può aiutare nell’integrazione tra le culture.

L’anteprima del suo ultimo libro avviene proprio nella sua città, Macerata. È giusta definirla anche una scelta di carattere affettivo?

È sicuramente una scelta affettiva. La mia città natale è Recanati, come d’altronde lo è anche per Musicultura; quella d’adozione è Macerata, in cui vivo da quando avevo due anni. Mi fa molto piacere accogliere l’invito de La Controra, di Musicultura e delle amiche e degli amici di Macerata racconta.

Da cittadino ed ex consigliere per tanti anni di Macerata, quanto, una rassegna come Musicultura, aggiunge lustro alla città e all’intera cittadinanza? Come vive il Festival?

Sicuramente il festival dà lustro a Macerata, città universitaria, di politica,  mai stata una terra “operaia”.  Un tempo era terziaria, fatta di impiegati, funzionari, di istituzioni. Ora questo territorio è un deposito di storia, cultura, di arte, che si apre alla musica, al teatro, alla condivisione di valori e di idee. Anche per questo motivo, Musicultura è sempre l’ospite d’onore a Macerata. La città fa molto bene a valorizzare questo tipo di eventi.

INTERVISTA. Lino Patruno inaugura La Controra di Musicultura 2019: “Vi racconto com’è nato il cabaret con I Gufi”

Musicultura è terreno fertile per gli incontri culturali, per i suoni e per le parole giuste; per l’arte nelle sue molteplici espressioni. Ieri, nell’affrescata cornice del Centrale Plus in Piazza della Libertà, si è svolto il primo degli appuntamenti de La Controra, che ha visto come protagonista il jazzista e cabarettista Lino Patruno. A condurre l’incontro è stato il poeta Ennio Cavalli.

Musicista di spicco nel panorama jazzistico italiano e internazionale, Patruno è compositore, sceneggiatore, co- fondatore negli anni ’60 de I Gufi. Ha scoperto la sua vocazione per la musica all’età di 18 anni da auto didatta, nata in estate, nelle Marche. Durante la sua carriera ha collaborato con celebri artisti, tra cui Dan Barrette, John Paul Pizzarelli. Alla redazione di Sciuscià, ha raccontato la sua passione per il cabaret e alcuni curiosi aneddoti sulla sua vita, tra jazz e la voglia di far divertire il pubblico.

“Quando il jazz aveva lo swing”: un racconto fluente che narra l’excursus di tutte le più significative collaborazioni che l’hanno portata a diventare l’artista che oggi è; tra le tante, quello con Joe Venuti. Cosa ricorda del primo incontro con il violinista statunitense e come ritiene che questo avvicinamento abbia influito sulla sua crescita e formazione musicale?

Mi definisco un collezionista di cultura jazzistica e, tra i miei “migliori acquisti”, mi piace citare Joe Venuti. Una sera venne in teatro a Bergamo e dopo il concerto si fermò a cenare a Milano, nello stesso locale in cui ero io. Mi avvicinai per chiedergli di incidere un disco. Lui, con un italiano maccheronico, mi invitò a duettare: con una “Ghitarra” presa in prestito da Joe Cusumano, improvvisammo per tutta la notte sui brani di George Brown, entrambi entusiasti di condividere quel momento. Fu un’esperienza incredibile. È così che è nata la nostra amicizia, fatta anche di collaborazioni e di viaggi.

Da jazzista, ci svela che la musica americana per eccellenza ha in verità origini italiane. Tuttavia perché, secondo lei, nel nostro Paese questo genere stenta ancora a sviluppare una propria connotazione stilistica o ad emergere?

Musicalmente parlando, l’Italia di oggi è purtroppo ignorante. Mi rammarica pensare che, per colpa della televisione, delle case discografiche ossessionate dai guadagni e dei talent show, il Paese che una volta era detentore della grande dell’opera e delle grandi voci, possa essere sceso così in basso. Nell’opinione pubblica c’è molta confusione tra cosa sia realmente la musica.

Dopo gli anni ’70, il jazz è entrato ufficialmente a far parte della cosiddetta “musica colta”, divenendo materia di insegnamento nelle scuole e nei Conservatori. A tal proposito, non sono venute meno le lamentele riguardo la perdita dell’immediatezza e l’estemporaneità del genere. Qual è il suo parere, a riguardo?

Voglio raccontarti un piccolo episodio: tempo fa un ragazzino di 17 anni mi mandò la registrazione di un suo pezzo al pianoforte, da farmi ascoltare; pensai di dover sentire la solita rivisitazione di Calabresella mia. Il ragazzo mi sorprese, suonando una pietra miliare della storia del jazz, Finger Breakers di Jelly Roll Morton, brano di una difficoltà esagerata. Incuriosito, gli chiesi come potesse conoscere il jazz dei primi anni ‘10 e mi rispose che il merito era di suo padre, appassionato di musica, che gli aveva tramandato l’amore per la cultura jazzistica in tenera età. Credo sia importante soprattutto come, ognuno di noi, tenda ad approcciarsi a qualsiasi forma d’arte. Alla base di ogni passione, c’è l’emozione.

A caratterizzare il suo stile artistico è il banjo. Sebbene i jazzisti suonino soprattutto il pianoforte, il contrabbasso o comunque tendano a prediligere elementi a fiato, come mai ha invece scelto di studiare questo strumento?

Prima il banjo si suonava principalmente per una questione di volume, molto più elevato rispetto a quello di un chitarra. Non c’erano i microfoni negli anni ‘20. Inoltre, si tratta dell’unico strumento inventato dagli americani, quando tutti gli altri hanno origini europee.

Oltre che jazzista, è anche cabarettista. Ha sempre portato un po’ della sua comicità nelle sue canzoni, come nei brani Crapa peladaIl gallo è morto. Quanta importanza assume lo humor nel mondo della musica e, in particolare, che valore ricopre nella sua?

Mi avvicinai al cabaret fondando negli anni ’70 I gufi. È stato un caso: una storia d’amore finita male si è rivelata significativa per la nascita del progetto. La comicità può essere di vari tipologie; ad esempio c’è quella banale, che è anche fine a se stessa, spiccia. Poi c’è quella ragionata, che affronta tematiche sociali, politiche, antifasciste, ad esempio. Quest’ultima, a mio avviso, è il tipo di approccio che veramente conta, perché ha un fine più nobile. Non a caso, sono ispirato da maestri come Totò e Peppino De Filippo.

INTERVISTA. “La tv è donna!”: le Signorine Buonasera a La Controra di Musicultura 2019

Quando tutto sul piccolo schermo era nella scala di grigi ma i brividi della diretta erano variopinti, Mariolina Cannuli, Rosanna Vaudetti e Maria Giovanna Elmi erano le Signorine Buonasera ed entravano nelle case degli italiani per annunciare il palinsesto Rai. Le stesse che lunedì 17 Giugno, al pubblico de La Controra di Musicultura, con l’eleganza e l’entusiasmo che da sempre le contraddistinguono hanno raccontato una tv lontana da oggi e hanno fatto rivivere un’epoca.

Quale credete sia stato l’impatto del vostro ruolo nell’immaginario del pubblico del piccolo schermo, dalla fase embrionale della televisione italiana in bianco e nero, a quella digitale?

[Cannuli] Abbiamo iniziato il nostro percorso in tv nel 1962. A quel tempo, la televisione rappresentava l’innovazione e aveva un grande impatto sul pubblico, al punto da risultare quasi “violento”, in primis dal punto di vista educativo e sociale.

[Vaudetti] I nostri ruoli, all’inizio, erano il banco di prova per un’avventura che ha cambiato la società. I dirigenti pensavano che questo nuovo apparecchio mastodontico, entrando nelle case italiane, potesse sconvolgere le famiglie con un nuovo modo di comunicare. Per “umanizzarlo”, hanno puntato sulla nostra immagine. Abbiamo rappresentato la televisione italiana. Siamo entrate, pian piano, in confidenza con i telespettatori per creare con loro una certa complicità e per far parte della vita quotidiana di tutti. Siamo state sorelle, amiche, vicine di casa degli italiani, considerate come impiegate di “categoria B”. Abbiamo lavorato con entusiasmo in ogni occasione, mantenendo lo stesso atteggiamento di sempre, dalla conduzione delle rubriche quotidiane, al Festival di Sanremo.

Quale episodio della vostra esperienza lavorativa ricordate come il più memorabile?

[Elmi] Tra i vividi ricordi, c’è l’incontro con colleghi incredibili, Mike Buongiorno su tutti; ma anche personaggi internazionali, come Silvester Stallone. Per il ruolo che abbiamo ricoperto in tv, non siamo diventate delle star ma abbiamo ricevuto sempre molto affetto da parte del pubblico. Ad esempio ho presentato, nei panni di Azzurrina, “Il dirigibile”, una trasmissione per bambini che è andata in onda negli ultimi anni ’70. Quei bimbi ora sono cresciuti, ma ancora mi ricordano con quel nome.

Dopo anni e anni di esperienza come annunciatrici del palinsesto Rai, in che modo pensate sia cambiata la fruizione della televisione da parte degli spettatori, considerando l’importanza del web nell’informazione quotidiana?

[Vaudetti] Quando la tv dei sogni, quella in bianco e nero, si è trasformata nella televisione che oggi conosciamo, siamo entrati in una nuova dimensione, più realistica. È stato un passaggio che ho vissuto in prima linea, avendo fatto il primo annuncio a colori della storia della tv italiana. Si è cominciato a trasmettere programmi dal vivo, le prime gare sportive. Se nella Rai dei primi anni noi eravamo le protagoniste, ora lo è il pubblico: i telespettatori sono diventati interpreti, come accade nei reality. I presentatori, invece, fanno ormai da trait d’union.

Le Signorine Buonasera sono state un vivido esempio di eleganza e professionalità. C’è, secondo voi, una progressiva deriva sessista nella rappresentazione della donna nei palinsesti televisivi?

[Vaudetti] Trovo che la Rai in realtà abbia fatto passi in avanti, con la presenza di direttrici e presentatrici di rete. Un tempo eravamo le sole donne a poter apparire, come da contratto. La televisione, avendo una funzione educativa, ha il compito di fungere da trainer e dare buon esempio. La tv è donna!

Musicultura da trenta anni scova talenti cantautoriali provenienti da tutto lo stivale. La musica ha la capacità di rappresentare un’epoca, ma anche di farci rivivere dei momenti passati: un vostro brano che racconta gli anni ‘60 da annunciatrici Rai?

[Canulli] Non ho dubbi: la sigla di apertura dell’antenna.

[Vaudetti] Un brano dell’Eurovisione, di quando presentavo Giochi senza frontiere.

[Elmi] Per me quella del Mondovisione, a questo punto!

INTERVISTA. Una cantautrice, un rettore, un rapper: Grazia Di Michele, il Prof. Pettinari e Moreno raccontano il loro progetto a La Controra 2019

Un confronto stimolante tra discipline artistiche e scientifiche, tra musica e chimica: questo è il fine del progetto presentato dalla cantautrice Grazia Di Michele, il Rettore dell’Università di Camerino Claudio Pettinari e il rapper Moreno.

Nel Cortile di Palazzo Ciccolini, i tre protagonisti della prima serata de La Controra hanno intrattenuto il pubblico con una performance fuori dagli schemi, tra spiegazioni dal carattere accademico, racconti di musica d’autore e freestyle. Le connessioni complesse che legano la scienza alla musica sono state oggetto di discussione di un talk che, in futuro, diventerà un progetto concreto, per diffondere il sapere musicale nelle facoltà scientifiche dell’Università di Camerino.

Una cantautrice, un rettore, un rapper: cosa hanno in comune? Qual è il punto d’incontro tra arte e scienza?

[Di Michele] Abbiamo in comune sicuramente la passione per musica e la volontà di avvicinare questa forma d’arte, alla scienza. Abbiamo voluto presentare il progetto in maniera divertente, provocatoria, ma non priva di spunti di riflessione.

Com’è stato lavorare insieme e dunque unire le vostre competenze e professionalità appartenenti a settori cosi diversi, in questo progetto comune?

[Pettinari] È stato molto interessante! È stato un continuo reiterare gli argomenti, i concetti, i discorsi che abbiamo poi deciso di affrontare durante l’incontro. Il nostro progetto nasce come un’esperienza davvero stimolante.

Grazia, è uscito il suo ultimo album Sante bambole puttanee ha pubblicato il romanzo Apolonnia; il comune denominatore è chiaramente la donna, a testimonianza dell’impegno sociale che da sempre contraddistingue la sua produzione artistica. Quali sono le aspettative e le speranze per questi nuovi lavori?

In verità non mi pongo mai delle aspettative, perché m’interessa di più prendermi cura delle cose che amo: ho lavorato a questo album e scritto il romanzo nelle pause in treno e negli aeroporti. Chi fa un mestiere come il mio, a volte è costretto ad aspettare un momento giusto da dedicare a un progetto. Così ho utilizzato il tempo che avevo a disposizione per poter fissare tutti i ricordi, avendo il timore di perderli. Apollonia è un romanzo autobiografico e visionario, molto particolare. Ogni volta che presento un nuovo lavoro, spero che qualcuno ne possa trovare un senso proprio.

Prof. Pettinari, il rapporto vivo e fecondo tra l’Università e Musicultura ha da sempre testimoniato il profondo interesse per il giusto connubio tra mondo umanistico e musicale. Qual è stato il suo contributo in questo lavoro?

Ho voluto spiegare come la chimica possa unirsi ad altri ambiti e materie: la musica e le parole sono particolari tipologie di sapere. Noi crediamo proprio nell’unione tra più arti e discipline.

Moreno, che ruolo ha il rap in Italia, oggi?

In Italia il boom del rap è arrivato sicuramente dopo rispetto agli Stati Uniti, un Paese in cui, proprio per la diffusione del genere, ho visto anche madri di famiglia fare freestyle. Spesso i rapper si posizionano nei primi posti delle classifiche musicali e, con il tempo, si stanno aprendo ad altre contaminazioni. Sono stato felice di distinguermi non soltanto per esser stato il primo artista rap nella scuola di Amici ma anche “l’agnello sacrificale”: ho deciso di lasciare l’underground perché volevo vivere di musica e non di giudizi e pregiudizi. Da tre o quattro persone, sono arrivato a un pubblico di tre milioni di italiani. Non mi sarei mai aspettato questo successo. La soddisfazione più grande è stata quella di partecipare a un talent, vincerlo e vedere come chi ha inizialmente storto un po’ il naso, con il tempo ha avuto l’occasione per ricredersi. Sono arrivato perfino a gareggiare tra i big di Sanremo insieme alla Prof.ssa Di Michele (ride). Ora sono qui a Musicultura e credo anche di essere uno dei primi rapper a esibirsi: amo essere un pioniere anche non volutamente. Un artista non si fa capo da solo, sono gli altri a dargli dei meriti. Se sono ospite di Grazia, vuol dire che sono stato un bravo allievo.

INTERVISTA. Francesca Romana Perrotta torna a Musicultura 2018, ospite de La Controra

“Musicultura mi ha dato tutto”: è con queste parole che Francesca Romana Perrotta si è presentata al pubblico de La Controra, questa volta in veste di ospite della XXIX edizione del concorso.

L’artista pugliese ha partecipato ben tre volte al Festival, conquistando sempre un posto tra gli otto vincitori. “L’ora di mezzo” è il suo nuovo album: un disco, questo, in cui le protagoniste sono donne della letteratura e della storia, tutte incomprese o dimenticate. La cara amica del festival ha regalato al pubblico di Musicutura uno spettacolo agli Antichi Forni di Macerata e un’intervista alla redazione di Sciuscià.

Ha iniziato a fartsi conoscere al pubblico a 18 anni, formando la band ‘Zeroincondotta’, che poi ha lasciato per intraprendere la carriera da solista. Cosa le manca del lavoro di gruppo? Qual è l’aspetto della sua professione che le piace di più?

Sono ormai anni che collaboro con gli stessi musicisti, sia in studio che dal vivo. Ho sempre avuto bisogno di essere circondata da una band: non riuscirei mai a collaborare con turnisti che vanno e vengono. Cerco dunque persone che sposino il senso delle mie canzoni e che amino esibirsi al mio fianco. I live rappresentano infatti tutto ciò che preferisco della mia professione. Molti artisti dicono che senza il contatto con il pubblico non riuscirebbero a vivere; io invece sto bene lontana dal palco ma, allo stesso tempo, mi rendo conto che quando mi esibisco riesco a tirar fuori la parte più irrazionale ed emotiva di me.

Nel settembre del 2017 è uscito il suo terzo album, “L’ora di mezzo”, in cui canta di donne dimenticate dalla storia e della letteratura. C’è una figura femminile a cui si senti più vicina nella personalità e nel carattere?

Mi piacerebbe rivedermi in Penelope, perché è una donna sicura di sé. Ma in realtà mi sento vicina, per la personalità e per il carattere, ad Elena di Troia, una figura femminile che è entrata nella vita di altri per poi andarsene.

Ha vinto numerosi premi e  collaborato con molti artisti: quanto reputa importante confrontarsi con i colleghi e condividere il suo lavoro con altri professionisti della musica? Con chi le piacerebbe collaborare in futuro?

I grandi artisti con cui ho collaborato, in particolar modo Cristiano De André e Pacifico, mi hanno insegnato aspetti fondamentali del mestiere: stare sul palco, sperimentare modi differenti di realizzare una canzone in base al contesto o alla natura stessa del brano, fare un soundcheck e altri aspetti tecnici rilevanti. Per quanto riguarda la scrittura dei pezzi, invece, il vero insegnamento l’ho ricevuto quando ero bambina, studiando la musica classica, che è il genere più rock in assoluto, perché è completo e apre la mente. In futuro mi piacerebbe esibirmi con artisti carismatici come Vasco o Gianna Nannini; oppure sarebbe interessante collaborare con Mimosa, tra i vincitori di Musicultura nel 2016, con cui condivido la medesima visione della musica.

Ha partecipato tre volte al Festival, aggiudicandosi sempre un posto nella rosa degli otto vincitori; adesso torna in qualità di ospite de La Controra: come vive quest’esperienza? Che importanza ha avuto Musicultura nella sua carriera?

Musicultura mi ha dato tutto, sin da quando ho partecipato per la prima volta nel 2007. È il Festival adatto a me, anche nelle scomodità che possono verificarsi, come suonare in una location differente a causa del maltempo. Mi rivedo molto nelle idee artistiche che promuove il concorso. È per questo che mi piacerebbe, prima o poi, far parte della giuria.

Lei, che dunque ha vissuto più volte le serate conclusive del Festival calcando il palco dello Sferisterio, in prospettiva della finale che consigli si sente di dare ai vincitori?

Nei tre anni in cui ho partecipato a Musicultura sono stata una pessima vincitrice perché, col senno di poi, avrei potuto dare di più. Consiglio agli otto vincitori di non essere competitivi ma di puntare sulle proprie energie e di presentarle sul palco. È necessario esibirsi cantando e suonando con libertà, senza guardare alla rivalità artistica in sé.

Annunciato il programma de La Controra 2019

LA   CONTRORA DI MUSICULTURA 2019

 Il programma di John VignolaMusic Club” in diretta su Radio1 Rai da Macerata. Nella settimana della Controra

Tra gli ospiti: ANDREA PURGATORI, FRANZ DI CIOCCIO e PATRICK DJIVAS (PFM)MORGAN, FABIO FRIZZI, THE ANDRÉ, SANANDA MAITREYA, ERNESTO ASSANTE, GRAZIA DI MICHELE, CLAUDIO PETTINARIGIORDANO BRUNO GUERRI, MARIOLINA CANNULI, MARIA GIOVANNA ELMIROSANNA VAUDETTI, QUINTETO ASTOR PIAZZOLLA, LINO PATRUNO, VALERIO CALZOLAIO, LIDIA RAVERA, FAUSTO PELLEGRINI, CARLO MASSARINI, MORENO, DETTO MARIANO, ENNIO CAVALLI, CARLOTTA NATOLI, ANGÉLIQUE KIDJO, I VINCITORI DI MUSICULTURA 2019

Il cartellone della “Controra” 2019 è servito.
Nata quindici anni fa per creare nel centro storico cittadino un contrappeso spettacolare alle serate del festival all’Arena Sferisterio, di anno in anno l’iniziativa è cresciuta e ha conquistato sempre più la fiducia del pubblico. Le caleidoscopiche proposte della “Controra” 2019 sono adesso pronte a cadenzare i giorni e le notti dell’intera settimana, della XXX edizione di Musicultura, dal 17 al 23 giugno.  Si tratta di concerti, recital, incontri, dibattiti, reading – tutti ad ingresso libero –  che al ritmo di tre, quattro e anche cinque al giorno si propongono di incuriosire ed intrigare una platea di appassionati folta ed eterogenea. La formula base è semplice: associare il divertimento al piacere dell’approfondimento.
A raccontare storie e protagonisti della “Controra” c’è quest’anno anche Radio 1 Rai, lo storico media partner di Musicultura.  “Music Club”, il programma di John Vignola, durante la settimana andrà infatti in onda in diretta da Macerata, proprio dai locali del ristorante Vere Italie, special partner di Musicultura 2019, a partire dalle ore 15.  Chi desiderasse partecipare dal vivo alla trasmissione nello studio allestito presso Vere Italie può prenotarsi chiamando il numero 0733.1840572 o consultando il sito www.vereitalie.it. Le altre location della “Controra”, comprendono Piazza Cesare Battisti, i cortili di Palazzo Conventati e di Palazzo Ciccolini, i nuovissimi ambienti di Centrale Plus in piazza della Libertà e, uscendo dal perimetro cittadino, il Centro Commerciale Val di Chienti di Piediripa, dinamico partner in molte attività di Musicultura.
RINGRAZIAMENTI
A conferire alla “Controra” le sue peculiari atmosfere, a mantenerne oliati gli snodi organizzativi, a rendere Macerata ospitale nei confronti degli artisti ospiti e del pubblico che si riversa durante la settimana in città contribuisce una pluralità di soggetti cittadini e del territorio. In primis l’Amministrazione comunale, con l’Ufficio Cultura, l’Ufficio Tecnico, l’Ufficio Economato e i Servizi Sociali; e poi le collaborazioni con La Bottega del Libro, Mecca Shop di Mario Nardi, l’Istituto Pannaggi, il festival “Macerata Racconta”, Casatasso, la Pro Loco Macerata, ETV Marche, EmmeTV, la Società Filarmonico Drammatica, l’Accademia di Belle Arti. Utilissimi i supporti della Polizia Municipale e dell’APM, come l’apporto degli esercizi di ristorazione e degli hotel convenzionati. Preziosi i sostegni e la progettualità in comune di UNI.CO e Cosmari. Cruciale infine il ruolo dell’Università di Macerata e dell’Università di Camerino, i cui studenti seguono per l’occasione percorsi formativi sul campo, trasmettendo contemporaneamente al pubblico entusiasmo e simpatia.

Tutto il programma de La Controra 2019