INTERVISTA – «A Musicultura ho mostrato le coordinate in cui mi trovo attualmente»: Simone Cristicchi racconta al Festival i suoi dieci anni da “cantattore”

Simone Cristicchi, tra gli ospiti di Musicultura 2016, si è esibito durante la serata conclusiva del Festival, portando sul palco dello Sferisterio il suo mondo teatrale. Ha dato un’anticipazione de Il secondo figlio di Dio, ultima fatica teatrale che debutterà il prossimo 23 luglio. Ma non solo: l’artista ha anche duettato con Chiara Dello Iacovo e si è lasciato andare ad una simpatica intervista-doppia con Nino Frassica. Il giorno successivo, poi, a Palazzo Conventati ha raccontato i suoi “10 anni da cantattore”, in una coinvolgente performance fatta di canzoni e racconti: ha riproposto i suoi brani più conosciuti, ha parlato del suo teatro, della sua amicizia con Frassica, dimostrando tutta la sua modestia quando, timoroso che il pubblico in fondo al cortile non lo vedesse bene, ha deciso di sedersi sullo sgabello più alto.

«Rispetto a tanti altri cantanti, credo di avere una marcia funebre in più», scherza Cristicchi, che ha chiuso la settimana de La Controra, accompagnando con la sua chitarra le voci del pubblico sulle canzoni di Sergio Endrigo, grande punto di riferimento del “cantattore”. Proprio in occasione del suo spettacolo a La Controra, Cristicchi, fresco di esibizione all’Arena Sferisterio, ha rilasciato un’intervista per la redazione di “Sciuscià”.

Che emozione è stata salire sul palco dello Sferisterio dopo sette anni dall’ultima volta?

È stato emozionante, perché ho portato sul palco il mio percorso attuale, che è quello del teatro e del musical civile. Il pubblico di Macerata credo abbia seguito questo mio percorso, partito come narratore di storie in forma di canzone, con Studentessa universitaria, la mia “prima pelle”, e continuato con il Coro dei Minatori di Santa Fiora, con cui abbiamo portato la musica popolare sul palcoscenico. Ieri sera ci sono stati 18 minuti di vero e proprio teatro in cui credo che il pubblico abbia visto la coordinata esatta dove io mi trovo attualmente.

Da qualche tempo ormai ti cimenti con grande poliedricità nel mondo del teatro. Simone Cristicchi è un attore rubato alla musica o un cantante rubato alla recitazione?

Mi piace definirmi “cantattore”, perché non mi reputo un attore vero e proprio, racconto storie a mio modo, con una mia cifra stilistica. Non ho mai fatto un’accademia o una scuola di teatro, però ho avuto la fortuna di avere due grandi maestri: Alessandro Benvenuti e Antonio Calenda, due grandi registi che mi hanno fatto crescere molto come interprete e raccontatore di storie.

In Magazzino 18 parli della tragedia delle foibe come di “una pagina strappata dal grande libro della storia”. Come hai recuperato questa pagina?

Sono partito da Trieste, una città di confine che è stata protagonista dell’esodo degli Istriani, Fiumani e Dalmati nel dopoguerra. Nella città di Trieste esiste un luogo che si chiama “Magazzino numero 18” e si trova nel Porto Vecchio. Questo magazzino è una sorta di simbolo della tragedia italiana che racconto perché racchiude gli oggetti della vita quotidiana di chi veniva via da quella regione, che poi passò alla Jugoslavia. Faccio sempre questo esempio: è come se le Marche o l’Umbria un giorno diventassero Jugoslavia, ci sarebbe un esodo di massa e si riverserebbero migliaia di vite. Sono partito da questi oggetti fisici, portatori di storie, ed ho iniziato una lunga ricerca per mettere insieme i pezzi di questo mosaico.

Ed infatti dietro ogni tua idea si percepisce un lungo lavoro di ricerca, fatto di testimonianze dirette e di un immergersi in tematiche che visibilmente ti stanno a cuore: ricostruire un mosaico, appunto. Questo lavoro ti ha portato a fare una musica in qualche modo “diversa”, che ti ha permesso di spiccare nel panorama musicale italiano. Come vedi il mondo artistico e musicale dei talent-show sempre più omologato alle logiche commerciali?

Io non disdegno i talent-show, ma mi dispiace che qualcuno possa esprimersi musicalmente come artista soltanto attraverso quegli spazi, oggi. Non esistono altri spazi e quindi anche i cantautori, che scrivono e dedicano anima e corpo a raccontare delle storie, si vedono costretti a partecipare a questi carrozzoni in cui vengono inglobati, masticati, digeriti e poi sputati. Questo è il pericolo di quel meccanismo. Sarebbe bello fare un talent-show di cantautori, no?

Dal teatro alla musica hai trattato importanti temi sociali e dato voce a chi una voce non ce l’ha. Questa è una “vocazione” che hai da sempre o è nata in seguito ad un particolare episodio o in un determinato momento della tua vita?

Io fin da bambino andavo per mercatini. Andavo a cercare gli oggetti antichi, roba da collezione, proprio perché ho sempre nutrito una passione per il passato, per la memoria. Quello che ho fatto con i miei spettacoli è stata la stessa cosa. È stata una sorta di antiquariato, come se fossi un restauratore della memoria: prendo una storia vecchia, la tiro fuori dagli sgabuzzini del passato e la aggiusto dandole una ripulita, una spolverata! (ride, n.d.r.) Questa è la mia passione, perché credo che siamo esseri fatti di memoria: senza di essa non siamo niente.

Da vincitore di Musicultura nel 2005, quali caratteristiche dovrebbero avere secondo te una canzone ed un artista per vincere il Festival? Che consigli ti senti di dare al vincitoreassoluto di Musicultura XXVII?

È una combinazione di tanti elementi, tra i quali anche la fortuna – che è un qualcosa di non razionalizzabile. Il consiglio che posso dare è cercare la propria unicità, sempre, non per sbalordire o fare gli strani, ma per mettere in mostra la propria anima, che è quella che parla attraverso il nostro corpo.

INTERVISTA – «A noi ‘sto mondo c’ha fatto male, capito?»: Ninetto Davoli si racconta a La Controra di Musicultura

Dalla visita alla casa di Totò, alla spesa per il mercato con Moravia, ai viaggi in Africa e India in compagnia di Pasolini e la Maraini, fino all’improbabile giro per la periferia romana a bordo della sua vecchia auto modificata, assieme a Maria Callas: la sua vita è un continuo colpo di scena a partire dal 1964, quando incontra il grande regista. È una specie di dovere artistico, e forse anche etico, quello che sembra spingere Ninetto Davoli a diffondere per parole e risate un pezzo di storia italiana.

Sul suo invito a Musicultura, ha infatti detto: «l’ho accettato per venire in rappresentanza di un certo mondo cinematografico; per raccontare ciò che ho fatto e con chi l’ho fatto. Fino a quarant’anni fa Pier Paolo purtroppo non era capito: un uomo più odiato che amato, uno che è stato cacciato dal suo stesso partito, quello comunista. Ora è diverso, c’è curiosità, ci sono giovani assetati di conoscenza su Pasolini: forse perché viviamo una realtà che lui aveva previsto. Siamo invasi dal superfluo».

Secondo il parere di chi, come lei, fa parte del mondo del cinema da più di cinquant’anni, a che punto è arrivata l’arte cinematografica in Italia?

Sono molto critico su questo argomento. In Italia manca cultura e non i soldi per farla, come spesso si sente dire: la verità è che i soldi vengono spesi male.  Per questo motivo e per altri, pensando al cinema italiano odierno mi viene in mente quello che mi disse Paolo Stoppa sul set di Casotto: «Ah Ninè, ma secondo te quando uno muore, poi resuscita?» Per quelli che come me sono legati a un certo modo di fare cinema, questo di oggi non può avere lo stesso nome: è proprio un’altra cosa.

In quel 1964, dalle parti del quartiere detto “dell’Acqua Santa”, sopra una piccola altura conobbe per la prima volta Pier Paolo Pasolini. Da lì in poi la sua vita non sarebbe più stata quella del giovane falegname che aiuta il padre a portare un po’ di soldi a casa. Se quell’incontro non ci fosse stato, se Pasolini non gli avesse imposto la mano sulla testa ricciuta, se non fosse diventato un attore, chi sarebbe oggi Ninetto Davoli?

Magari sarei diventato un grande professionista della falegnameria, un restauratore, ma lo penso perché questo era all’inizio il mio lavoro. Certo, nel corso della vita avrei potuto comunque cambiarlo, chi mi avrebbe garantito all’epoca che avrei avuto speranze per il mio futuro? Oggi i piccoli negozi artigiani chiudono tutti e io ero un artigiano, prendevo qualcosina a settimana da portare a casa. Forse non avrei avuto la possibilità di fare quel lavoro per tutta la vita, forse avrei cambiato comunque. Ad ogni modo, è andata bene così!

La sfiora, o magari già esiste, l’idea di scrivere un libro su Pasolini? Ci possiamo aspettare qualcosa?

Aaah, tu vòi sapè troppo! (ride, n.d.r.) Pensi che non ci stia pensando? Che non lo stia già facendo? Vi potete aspettare qualcosa, sì, non nel breve periodo però. Le cose sono tante, la ricerca è grossa e gli eventi sono numerosi. Ma quando sarà il momento, lo saprete.

INTERVISTA – «Vogliamo dare forza a chi si trova a fronteggiare questi stessi problemi»: Cesare Bocci e Daniela Spada raccontano il loro “Pesce d’aprile” a La Controra

Lui è Cesare Bocci, l’attore che dà il volto al vicecommissario Mimì Augello nella fiction Montalbano, e lei, Daniela Spada, una grafica e fondatrice di una scuola di cucina. Non sono una coppia come le altre: travolti dalla “guerra mondiale”, come la chiamano loro, hanno avuto la forza di rialzarsi e combattere, finché non hanno avuto la meglio sul destino.

La “guerra mondiale”, per loro, non è stato altro che l’ictus post-parto che ha colpito Daniela a una settimana dalla nascita della primogenita Mia, costringendola a letto per mesi, certa che non avrebbe più riacquistato l’uso delle gambe. Invece di lasciarsi inghiottire dalla disperazione, Daniela ha preferito non perdersi d’animo e lottare per tornare a fare quel che faceva prima: un percorso mai facile e spesso doloroso, in cui l’instancabile sostegno del “Principe Azzurro Mononeuron” –  così ha ribattezzato affettuosamente il compagno – si è rivelato fondamentale.

È dunque una storia di rinascita e, soprattutto, di speranza, quella che Cesare Bocci e Daniela Spada hanno affidato a Pesce d’aprile, il libro scritto a quattro mani e presentato in occasione de La Controra di Musicultura.

La capacità di reagire ad un evento drammatico costituisce il tema centrale di Pesce d’Aprile, che, a partire dal titolo, tratta con insolita leggerezza la malattia. Abbracciare con umorismo questo “scherzo del destino” è stata per voi una scelta razionale o, piuttosto, una reazione istintiva, quasi di sopravvivenza?

Cesare: È stata una scelta irrazionale, istintiva, perché così è la vita: quando si vede qualcuno scivolare su una buccia di banana, involontariamente scappa da ridere e, allo stesso modo, in alcuni momenti drammatici ci è venuto da ridere. Quando Daniela ha scritto il primo post che avrebbe poi dato il nome a “Pesce d’aprile” ha raccontato del dramma che le era capitato in maniera estremamente ironica e divertente.

Daniela: Affrontare un dramma di questo genere dà una forza inaspettata. Certo, lui lo sa, ci sono stati momenti duri, ma bisogna trovare la forza che spesso, contrariamente a quanto si pensi, si nasconde proprio nella leggerezza.

Sono passati sedici anni dall’incidente che ha portato alla genesi del libro. Quando vi siete resi conto di essere maturi per tornare con la mente a quei ricordi dolorosi, al punto di volerne fare un romanzo?

Cesare: Quando ci siamo sentiti pronti per scrivere il libro? Quando ce l’hanno chiesto! (ride, n.d.r.) Prima di allora avevamo vissuto questa malattia come una storia privata, sebbene condivisa con la nostra cerchia di amici e parenti. Mai avremmo pensato di far trapelare la nostra storia al pubblico, benché tutti ci esprimessero la loro ammirazione per quel che eravamo riusciti a fare. È stato solo negli ultimi due, tre anni che ci hanno chiesto di parlarne e, dopo esserci consigliati per qualche tempo, ci siamo finalmente chiesti: perché non farlo? La storia che raccontiamo è quella di una grande battaglia fatta per riuscire a vivere e abbiamo ottenuto un risultato: siamo qui e viviamo. Ora c’è da continuare a lottare, però siamo qui e viviamo. Per di più, raccontarla attraverso di me, che sono un personaggio pubblico, avrebbe permesso di raggiungere più persone.

È stato quindi non tanto per voi quanto per gli altri che avete preso la decisione di scrivere il romanzo?

Daniela: Esattamente, proprio per quello. Non per “autoincensarci”, anche se su di noi ha avuto indubbiamente uno scopo terapeutico.

Cesare: Alla fine è servito molto anche a noi, ma inizialmente ci eravamo detti che, fosse servito anche a una sola persona a trovare un po’ di forza nel nostro racconto, ne sarebbe valsa la pena. Poi, ci siamo resi conti che non solo una, ma addirittura tre, ne avrebbero beneficiato: una sarebbe stato il potenziale lettore del libro, e gli altri due siamo stati noi.

Daniela, la comparsa della malattia ti ha costretto a re- inventarti, dal lavoro alle abitudini familiari. Che idea ti sei fatta della forza che l’uomo riesce a mettere in campo quando è posto di fronte a una sfida?

Daniela: È tanta, anche se c’è da dire che ho avuto dalla mia parte il fatto di avere una figlia, e, si sa, per i figli le madri fanno i salti mortali. Io non posso fare i salti mortali ma ho fatto delle cose che sperano che siano utili a lei.

Cesare, fatta eccezione per i primi tempi, non hai mai smesso di lavorare, confermandoti come uno dei volti più noti del panorama televisivo, oltre che teatrale. Come sono cambiati i tuoi rapporti con gli impegni lavorativi?

Cesare: Questa esperienza sicuramente mi ha fatto maturare come uomo e, di conseguenza, come professionista. Me ne sono reso conto quando mi sono visto molto più tranquillo ad affrontare la “battaglia del set”, dopo aver combattuto insieme una “guerra mondiale”. Ero più rilassato, pur riconoscendo la serietà e l’impegno che richiede il lavoro sul set, specialmente se fatto con dei professionisti. In fondo, se anche si sbaglia una battuta, non muore nessuno – se non nella fiction! Non ho più l’ansia di far bene, ho il dovere di far bene, che è diverso. Non c’è dubbio che quest’esperienza mi abbia dato più solidità anche sotto questo aspetto.

INTERVISTA ai Tiromancino: parole che lasciano il segno

Ci accolgono così i Tiromancino: Federico Zampaglione fa arpeggi con la chitarra e suo fratello Francesco sorride mentre si accende una sigaretta. Dopo la reunion tanto attesa dai fan – che ormai partecipano anche nella decisione dei nuovi singoli da far uscire – approdano sul palco dello Sferisterio e di Musicultura, festeggiando i venticinque anni del festival. Il loro entusiasmo lo esprimono soprattutto sul palco facendo un selfie con la bellissima platea dell’arena di Macerata.Dietro le quinte, prima dello spettacolo, ci raccontano del loro nuovo lavoro, che è il frutto dell’esperienza e della maturità acquisite durante tutti questi anni, e di tutti i sentimenti che ne sono scaturiti.

25 anni di successi, di emozioni e soprattutto di tanta musica. Com’è festeggiare con Musicultura questo avvenimento, in un luogo magico come lo Sferisterio di Macerata?

È bellissimo, intanto perché il posto è splendido ed abbiamo un’occasione eccezionale: quella di suonare dal vivo per questa manifestazione bellissima che da tanti anni ci accompagna, proprio come noi cerchiamo di accompagnare il pubblico con la nostra musica.

Hai scritto canzoni insieme a tuo padre Domenico e ora hai composto e dedicato il tuo ultimo singolo Immagini che lasciano il segno a tua figlia. Quanto le tue esperienze di vita artistica e personale degli ultimi vent’anni hanno cambiato Federico Zampaglione e quindi i Tiromancino?

Ho iniziato a scrivere canzoni con mio padre dopo qualche anno di carriera:  i pezzi con lui risalgono al 2007. I primi dischi erano scritti  insieme a Francesco ed in alcuni brani c’era anche Riccardo Sinigallia, come nell’album La descrizione di un attimo. Poi è uscito il nuovo singolo, Immagini che lasciano il segno, che ha  suscitato molto entusiasmo ed apprezzamento da parte di molti fan. Mi capita spesso che svariate persone mi fermino e mi chiedano notizie del pezzo e della mia bambina. La parte musicale della canzone è di Francesco, io invece ne ho scritto il testo. Volevo raccontare l’esperienza della paternità in maniera diretta: dicendo quello che sentivo. Il bello è che questo brano ha contagiato molte persone, non solo genitori, ma anche fan che l’hanno dedicato ad amici, compagni e genitori.  Hanno percepito questo affetto e questo amore che arrivava diretto ai loro cuori.

IMMAGINE: una parola ricorrente nei tuoi ultimi lavori, ma non è un concetto sconosciuto nella tua scrittura. A partire da La descrizione di un attimo, passando poi per il cinema fino ad arrivare a quest’ultimo album Indagine di un sentimento. Quanto è importante per te quindi l’immagine?

Non ci interessa così tanto apparire, l’immagine che ci interessa molto è quella dei video: cerchiamo di fare dei videoclip che siano interessanti. Non solo  playback e basta, ma dei piccoli cortometraggi: storie spesso in animazione ed altre volte con l’utilizzo di attori. Cerchiamo di sfruttare la possibilità dell’immagine per dare qualcosa in più. Fondamentalmente, a mio parere, fare il playback della canzone non è aggiungere qualcosa, è semplicemente far vedere in video dove appaiono cantanti e strumentisti. Nel nostro caso c’è sempre stata la voglia di fare l’abbinamento  immagine-suono arricchendo l’immaginario delle canzoni con dei videoclip un po’ più ricercati.

Nel video di “Liberi”, primo singolo del vostro nuovo album, c’è un nuovo linguaggio, l’animazione. Come nascono i vostri video? Cosa ne pensi della contaminazione dei linguaggi artistici?

La contaminazione è fondamentale anche perché musica ed immagini sono sempre stati un binomio eccezionale a partire dai film: non ci si può immaginare una pellicola che si è amata moltissimo con delle musiche diverse, perché l’elemento musicale diventa parte integrante della storia,della narrazione e proprio dell’emozione stessa suscitata nello spettatore. Le idee dei video vengono da varie fonti: se c’è di base c’è sempre la volontà di andare al di là del classico video, questo già ti colloca in un territorio di ricerca. Non ci si limita a fare videoclip in cui appariamo solo noi che suoniamo. Per quanto riguarda la tecnica dell’animazione, l’avevamo già usata in passato con Per me è importante e Parole al vento e poi è tornata con Liberi. In quest’ultimo video, però, c’è un’animazione in 2d, più classica e semplice rispetto a quella presentata in passato. C’è stata una ricerca molto accurata da parte del nostro animatore Marco Pavone, che ha pensato a degli uccelli e ad un immaginario visivo che non fosse alla “Peppa pig” , un intrattenimento per bambini, ma che avesse degli elementi un po’ gotici e più adulti.

Nello stesso video, come protagonisti  ci sono due uccellini – Libero e Futura – i cui nomi sono stati scelti dai vostri fan. Qual è il rapporto che hai con loro? E quanto incide sul vostro modo di pensare, di scrivere e di fare musica?

Nel nostro modo di fare musica no, perché quello che facciamo, lo facciamo per noi in primis. Una volta che abbiamo finito un album, ci interessa capire cosa ne pensano i fan. Se non hanno un opinione positiva è una sfortuna, ma non ci facciamo influenzare. Il terzo singolo, che uscirà tra un po’, dell’ultimo disco, l’ha scelto il nostro pubblico: gli lasciamo degli spazi di decisione su alcune questioni.

Qual è la canzone a cui tenete di più o che scegliereste come la più rappresentativa dei Tiromancino?

Ce ne sono diverse: sceglierne una è sempre difficilissimo. Io direi La descrizione di un attimo o Due destini: due canzoni di quell’album che ci ha regalato fama e grandi successi.

Nino Frassica a Musicultura XXVII: per La Controra un’autobiografia … 70% vera e 80% falsa

Nino Frassica nel “salotto” allestito presso il cortile di Palazzo Conventati diverte il pubblico leggendo alcuni brani tratti da La mia autobiografia (70% vera 80% falsa), oltre a rispondere alle domande di Ennio Cavalli, giornalista e scrittore, che, per l’occasione, fa gli onori di casa.

«La Mondadori non mi chiese un libro umoristico, ma una vera e propria autobiografia» – afferma il comico siciliano a proposito della nascita del suo libro – «ho provato a scriverla, ma mi sembrava un curriculum, era troppo burocratica. Allora dissi: ‘posso provare a scrivere di testa mia?’ Scrissi una pagina piena di castronerie, e mi dissero che andava bene».

Nel corso dell’incontro viene ripercorsa la carriera di Frassica, partita da una discoteca siciliana in cui si esibiva da ragazzo, passata per il fortunato incontro con Renzo Arbore e per il programma “Quelli della notte”, che lo ha portato alla ribalta, per poi giungere alla più recente partecipazione alla serie televisiva Rai “Don Matteo”, di cui viene annunciata l’undicesima stagione, in arrivo per ottobre 2017. Non sono mancate neanche delle gag che hanno coinvolto direttamente il pubblico: due persone sono state chiamate a partecipare al gioco del “vero o falso”, in cui è stato ricreato uno sketch che Frassica propone nel suo “Programmone”, in onda tutte le mattine su radio2.

A proposito della canzone presentata a Sanremo e riproposta allo Sferisterio in occasione della finalissima della XXVII edizione, A mare si gioca, scritta e arrangiata da Tony Canto, in cui viene affrontato il delicato dell’immigrazione, il comico confida alla nostra redazione di “Sciuscià” il suo pensiero: «Non è un fatto di essere un comico. Io di mestiere faccio il “clown”, ma come persona mi sento coinvolto in questo tipo di problematiche e, avendo l’occasione di poter portare sul palcoscenico di Sanremo quel testo, che è di Tony Canto, ho fatto la mia parte».

INTERVISTA – La “musica ribelle” di Eugenio Finardi risuona sul palco di Musicultura XXVII

Eugenio Finardi, il cantautore guru degli indipendenti, paladino delle libertà artistiche e sociali più totali, torna nel 2016 sui palchi di tutta Italia con uno spettacolo completamente nuovo dal titolo “40 anni di Musica Ribelle”, proprio a quarant’anni dall’uscita di “Sugo”, il disco che nel 1976 lo ha portato al successo. Un lavoro discografico, questo, in cui sono contenuti, oltre alla canzone–manifesto Musica Ribelle, alcuni tra i brani più rappresentativi della sua carriera, come La Radio, Voglio e Oggi ho imparato a volare.

Ospite della seconda serata di Musicultura 2016, prima di esibirsi sul palco dello Sferisterio Finardi ha incontrato il pubblico de La Controra e, tra le altre cose, ha raccontato il suo legame con il Festival e quanto esso si sia rivelato importante per la sua carriera.

«Nel 1999 – ha confidato Eugenio Finardi – ho partecipato a quello che pensavo e speravo fosse il mio ultimo Festival di Sanremo. Dopodiché mi sono stufato di “fare Finardi”, non mi sentivo più in sintonia con il mercato musicale, con il contratto che mi ingabbiava ad una multinazionale: se uno è un musicista vero, comincia ad essere limitante il fatto di dover sottostare a certe logiche ma si ha paura allo stesso tempo di cambiare. Con questo spirito, nel 2002/2003, sono arrivato a Recanati: in piazza si teneva Musicultura e ho incontrato Francesco Di Giacomo, voce del Banco Del Mutuo Soccorso, che mi ha proposto di cantare il Fado portoghese e mi ha presentato Marco Poeta, poeta recanatese. Mi invitarono ad entrare in questo progetto, traducendo alcune canzoni di Amàlia Rodrigues. Mi feci mandare una audiocassetta, per formalità, ma dopo tre canzoni la voce di Amàlia già mi aveva commosso sino alle lacrime. Mi resi conto della profondità di questa musica, per certi versi molto simile alla canzone napoletana, ed accettai, iniziando a girare soprattutto nelle Marche. In questo contesto – ha continuato Eugenio Finardi – ebbi l’occasione di conoscere tutti questi meravigliosi “cucuzzoli” ricchi d’arte ed ognuno con il proprio piccolo teatro. Fu una rivelazione scoprire che potevo fare un concerto di musica non mia e non essere linciato se non cantavo ciò che il pubblico si aspettava; per me fu una liberazione pazzesca, fu come rendersi conto che ci poteva essere altro aldilà di Finardi, che potevo allargare gli orizzonti includendo altre musiche. Tutto ciò mi diede il coraggio di fare un disco di Blues, mio grande amore musicale e da sempre il genere che suono nel privato. Ebbe uno straordinario successo, feci 130 concerti nei quali proponevo una sola canzone di Finardi e per il resto il repertorio era Blues, comunque scritto da me».

Così Finardi si è raccontato alla redazione di “Sciuscià”.

“40 anni di musica ribelle”: Eugenio Finardi, come uomo e come artista, contro quali logiche contemporanee si ribella? E in che modo?

Contro il liberismo, contro questa dittatura politico-finanziaria in atto oggi; la quale consente all’1% di popolazione di ricchissimi di dominare questo nostro mondo. Quei poteri forti che stanno derubando tutti gli altri, rendendo impotente ogni principio democratico.

Uno dei suoi pezzi più noti è Extraterrestre. Attraverso questa metafora fantascientifica, quale tipo di evasione propone e da cosa?

In realtà Extraterrestre non propone una vera e propria evasione da qualcosa ma, piuttosto, spiega come sia impossibile sfuggire a se stessi, anche andando, metaforicamente parlando, su un altro pianeta.

Spesso si ha l’impressione che siano i “talent” a indirizzare oggi artisti, testi e messaggi. Per un artista come lei che ha vissuto in un periodo in cui le canzoni nascevano nelle osterie, tra la gente e davano voce a chi non l’aveva: persone, storie e tematiche sociali. Come vive e vede questo fenomeno sociale che sta investendo il suo mondo?

È un fenomeno che rappresenta uno spaccato della realtà artistico-musicale di oggi. Bisogna saperlo utilizzare nel migliore dei modi ma anche uscire da questa logica. Ci sono tanti talenti emergenti che lo fanno e che sanno uscirne. Non sono l’unica via: i “talent” portano alla fama e al successo magari prima dell’esperienza, della gavetta, ma esistono altre realtà, altre vie da seguire.

Musicultura crede e vuole dare un’opportunità alle proposte di giovani artisti non ancora affermati . Cosa si sente di dire a chi nutre la sua stessa voglia di “ribellarsi”, a chi non intende omologarsi ed omologare la sua musica?

Coraggio! Non smettere mai di tentare. Come dice la canzone Musica ribelle bisogna non essere preda delle proprie paure, ma avere il coraggio di continuare a lottare per ciò che si crede giusto.

INTERVISTA – Un “Autoritratto” poetico a Musicultura: intervista ad Adam Zagajewski

La Controra di Musicultura ha ospitato Adam Zagajewski, poeta e saggista polacco autore dell’antologia Dalla vita degli oggetti. Durante l’incontro, l’autore ha commentato alcuni suoi versi e ha letto in lingua originale alcune sue poesie tratte dal libro, tra cui Autoritratto e Mistica per principianti.

I temi trattati da Zagajewski sono stati la guerra, il ritorno in patria, l’Europa e – ovviamente – la poesia. A conclusione della sua esibizione, il poeta ha confidato: «I due ingredienti principali per scrivere poesie sono: avere delle cose interessanti da dire e un pizzico di fortuna».

Dopo aver vissuto per vent’anni all’estero, è ritornato in Polonia, precisamente a Cracovia. Ha vissuto la Polonia assediata e mutilata della Seconda guerra mondiale: come ci si sente a tornare in patria, trovandola così diversa e democratica?

Come saprai, ho vissuto molti anni a Parigi e non ho visto il mio Paese per molto tempo. In me c’era sempre il desiderio di ritornare. Ho viaggiato molto, e questo mi ha permesso di osservare lentamente, passo dopo passo, il grande cambiamento. Sono veramente molto entusiasta della fine del comunismo e dell’avvento della democrazia.

“Hai visto i profughi andare verso il nulla, /hai sentito i carnefici cantare allegramente” è un verso tratto dalla poesia Try to Praise the Mutilated World. Possiamo considerarla molto attuale, vista la delicata questione dei profughi che ogni giorno giungono sulle nostre coste. Questa poesia può essere in qualche modo dedicata a loro?

È sicuramente dedicata a loro. Ho scritto questa poesia subito dopo la guerra in Jugoslavia, dove c’erano molti profughi: provo e ho provato molta compassione per loro. Penso sia una poesia universale. Anche la mia è stata una famiglia di profughi: quando vivevo a Leopoli, siamo dovuti scappare. Posso dire che la mia vita è iniziata con l’essere un profugo.

E se anche lei è stato un “profugo”, allora, cosa pensa si possa fare per accogliere meglio coloro che scappano da Paesi “mutilati”?

Ci sono due punti di vista. Il primo è “filosofico”  ed è legato al tema dell’accoglienza  e dell’umanità, che dovremmo sempre avere nei confronti di chi scappa dalle guerre e dalla disperazione. Il secondo è sicuramente un punto di vista più politico, di cui però non so parlare molto visto che non sono competente in materia. Però è pur vero che bisogna fare qualcosa in quest’ambito, perché se l’intera Africa si trasferisse, un Paese morirebbe, smetterebbe di esistere.

“Siamo come palpebre, dicono le cose/ sfioriamo l’occhio e l’aria, l’oscurità/ (…) E all’improvviso sono io a parlare (…)” sono parole tratte dalla poesia Dalla vita degli oggetti. In che momento ha cominciato a “dialogare” attraverso la poesia con le cose?

Non c’è stato un vero momento perché credo che  il “dialogare” con le cose, sia il centro della poesia stessa, la sua natura. Essere poeta non è come essere dottore, professore o avvocato: loro sono specialisti. Il poeta è interessato a tutto, alla vita, all’amore, ai viaggi. Per me, è questa è la chiave: cercare di non essere “specialisti”.

Nella poesia Ricordi, ha scritto: “Sfoglia i tuoi ricordi/ cuci per loro una coperta di stoffa”. Nella coperta di ricordi di Adam Zagajewski, quali sono quelli più vividi?

Non so, ho veramente tantissimi ricordi (ride, n.d.r.). La mia stessa vita è un ricordo, sono nato come un rifugiato ed ora è tutto molto diverso. L’amore, la musica, gli amici più cari: sono sicuramente questi i ricordi più belli.

In un mondo sempre più tecnologico e consumistico, la letteratura e la poesia hanno sempre più difficoltà ad emergere. Secondo lei, cosa potrebbe fare lo scrittore per avvicinare di più il pubblico moderno alla nobile arte della poesia?

Come prima cosa, scrivere bene – anche se io credo che i giovani debbano semplicemente interessarsi di più a questo tipo di arte. Gli artisti, secondo me, non possono farsi pubblicità. Non è molto bello per uno scrittore stare in strada e cercare di convincere i passanti a leggere i propri testi!

La sua antologia Dalla vita degli oggetti coglie al meglio le contraddizioni della natura umana. Quale crede sia la più grande contraddizione dei nostri tempi?

Nelle nazioni democratiche secondo me, la più grande contraddizione deriva dal fatto che ci sente liberi solo “politicamente” e ci si dimentica che si può essere veramente liberi tramite l’arte. Molte culture dimenticano proprio questo, sono libere ma non sanno usare la loro libertà nel migliore dei modi.

INTERVISTA – A La Controra di Musicultura si respira aria di Blues, con James Senese e Napoli Centrale

In occasione della quinta giornata de La Controra di Musicultura, James Senese e il suo storico gruppo Napoli Centrale si sono esibiti in Piazza Cesare Battisti. Con una performance eccezionale, Senese ha incantato la piazza gremita di gente nonostante il caldo torrido del pomeriggio.

Senese non ha solo cantato e suonato, ma si è anche raccontato, davanti ad un buon bicchiere di prosecco, al pubblico maceratese in compagnia di  Michela Pallonari, parlando della sua Napoli che magistralmente rivive nelle sue canzoni. Il momento più toccante e commovente è stato quando sono partite le note di Chi tene o’mare, un omaggio al suo amico precocemente scomparso Pino Daniele. Per un’ora e mezza Macerata ha respirato Blues.

La redazione di “Sciuscià” ha incontrato l’artista partenopeo prima della sua esibizione a Musicultura 2016.

È la prima volta che partecipa a Musicultura da ospite: che impatto ha avuto con il Festival?

Mi sembra un Festival molto interessante. Ci si può esprimere liberamente. Ed è difficile trovare questa libertà in altri Festival importanti come questo.

Napoli Centrale è una sua creatura che ha un linguaggio proprio capace di unire il folklore napoletano al Blues. Quanto conta la tradizione e quanto l’innovazione, in questo progetto?

La tradizione è importante, ma l’innovazione conta tantissimo. Io, come compositore di Napoli Centrale, faccio musica d’avanguardia da quarant’anni. Andando sempre avanti.

Napoli è una città che ha dato vita a moltissimi musicisti; alcuni di loro, dopo aver raggiunto la fama nazionale ed internazionale, l’hanno abbandonata. Lei, invece, è rimasto. Qual è il rapporto che ha con la sua città?

Io provo dei forti sentimenti per Napoli. Dove abito sto bene, e non avrei mai potuta abbandonarla. Come noi ben sappiamo, è una città ricca di contraddizioni, ma se uno riuscisse a vivere come vivo io, ci si potrebbe vivere molto bene. È una città contorta come tante,  perché il bene ed il male esistono dovunque.

Suo padre è americano, sua madre è napoletana, e lei è stato più volte negli Stati Uniti vivendo anche la realtà del Bronx. Quali sono le differenze, se ci sono, e quali le analogie tra la periferia americana e quella napoletana?

Credo che siano più meno la stessa cosa, c’è la stessa cultura di dimensioni, accadono gli stessi sbagli e vi sono gli stessi problemi, che forse in America sono maggiori rispetto all’Italia. Per questo motivo, mi sento di dire che il Bronx e la periferia napoletana sono più o meno la stessa cosa.

Che consiglio si sente di dare ai giovani musicisti emergenti che vogliono intraprendere questa carriera?

Questo è un mestiere molto difficile: o lo fai per bene, o non lo fai affatto. Bisogna crederci. Se i giovani ci credono, potranno andare avanti senza problemi e creare delle nuove dimensioni.

INTERVISTA – “Il movimento è fermo”, ma non a Musicultura: Lo Stato Sociale sceglie La Controra per presentare il suo primo romanzo

Lodovico “Lodo” Guenzi e Alberto “Albi” Cazzola de Lo stato sociale hanno fatto tappa al cortile di Palazzo Conventati, gremito, per l’occasione, di giovani e devotissimi fan della band bolognese, per presentare il loro primo romanzo, Il movimento è fermo, uscito il 3 giugno e già giunto alla quarta ristampa.

«Il libro, da solo, ha venduto più di tutti i nostri dischi», scherza Lodo, che durante l’incontro ha intrattenuto il pubblico con la lettura, contraddistinta dalla sua verve istrionica, di brani del libro. Albi, co-autore del libro insieme ad Alberto “Bebo” Guidetti, altro membro della band, ha spiegato le ragioni e le dinamiche che stanno dietro a questo primo lavoro letterario: è una storia che parte da Bologna per arrivare a toccare temi importanti quali vocazione civica, attivismo politico, insoddisfazione professionale, libertà nel web e amore romantico.

Ecco cosa hanno raccontato alla nostra redazione dopo l’incontro.

In questo periodo siete in giro per l’Italia per promuovere il vostro primo romanzo.  A questo punto, presentare Il movimento è fermo a Musicultura sembra una tappa “obbligata”…

Albi: Le prime date che abbiamo fatto fuori da Bologna, le abbiamo fatte proprio nelle Marche, e, nel corso degli anni, abbiamo conosciuto dei ragazzi che ci hanno parlato del Festival. L’idea di prendere parte al Festival è venuta da Jambo, il nostro tuttofare” che lavora nella nostra etichetta, la Garrincha Dischi, e noi abbiamo accettato di buon grado, perché ci è sembrata una situazione calzante.

Non capita spesso di leggere il nome di una band sulla copertina di un libro: scrivere un romanzo ha delle analogie con lo scrivere e comporre musica?

Albi: Nonostante siano due linguaggi molto diversi, musica e scrittura sono delle forme espressive che servono a trasmettere quello che si vuole dire: tramite una canzone il messaggio arriva in un certo modo, mentre scrivendo un libro si ha forse più spazio per approfondire e spiegarsi meglio. La canzone è più libera all’interpretazione: è una cosa che si può scrivere in dieci minuti e durare secoli (ride, n.d.r.), se fatta bene. Un libro richiede più tempo, più ragionamento, e appartiene ad una dimensione più intima, anche di chi la fruisce. La musica, al contrario, spesso viene fruita collettivamente, ad un concerto. Sono due cose diverse, ma che appartengono alla stessa voglia di comunicare.

In uno degli stralci del romanzo che sono stati letti al pubblico, menzionate il protagonismo dei social network nella vita di tutti, in toni non troppo entusiastici. Qual è la vostra posizione riguardo a questi nuovi media, considerando che, come band, ne fate un uso molto attivo?

Lodo: Spesso si confonde la lettura critica delle cose del mondo, qualsiasi esse siano, con la lettura polemica o manichea: in realtà, tutto quello che c’è nel mondo, ha sia aspetti molto funzionali e positivi che aspetti deteriori e negativi. Internet è una cosa che fa parte di questa vita, è inestirpabile e ha delle sue derive, come tutte le cose che esistono. Spesso quando si critica una cosa, non si fa necessariamente per andarle “contro”. Ad esempio, nel rapporto uomo-donna, si va incontro a delle grosse difficoltà, ma si continua comunque ad innamorarsi. Nel caso specifico, la capacità di fruire liberamente e senza intermediari di una cosa è il motivo per cui noi, banalmente, siamo qui, oggi, a presentare il nostro libro di fronte ad un pubblico. Sono sicuro che dieci anni fa non saremmo stati una band che funzionava, perché avremmo avuto bisogno di altri intermediari e forse ci saremmo fermati prima. Il rapporto diretto con le persone è il nostro essere sempre almeno con un piede giù dal palco, relazionalmente parlando. D’altra parte, però, è ovvio anche che la stessa cosa che ti rende molto vicino, da fermo, a tutto quello che a te interessa, è anche una cosa che ti isola: è come stare a casa e avere tutti i “cibetti” e i “giochini” a disposizione, senza aver bisogno di dover uscire. Questo ti dà una visione distorta del mondo.

Due dischi, concerti, un DVD live, una forte presenza sui social network e ora un romanzo: nella vostra carriera avete deciso di sperimentare diversi mezzi di comunicazione. Quale identità e quale messaggio volete trasmettere attraverso canali così diversi e che, spesso, vanno a “colpire” pubblici diversi?

Albi: Il nostro intento è cercare di smuovere – oltre che noi stessi – il pubblico e creare momenti di aggregazione ai nostri concerti. La stessa cosa si può fare attraverso la comunicazione in generale: il confronto aiuta le persone a migliorarsi. A grandi linee il nostro scopo è questo; poi, è ovvio che si va ad analizzare aspetti più specifici come i rapporti interpersonali, di politica in senso ampio, di utopie, di sogni, di quello che ci fa schifo.

Lodo: L’intento è quello di aggregare, ma anche di aggregarci tra noi, di riuscire a collaborare, noi cinque. Abbiamo avuto la fortuna di avere delle persone a cui interessa quello che abbiamo da dire. Questo comporta due possibilità: mantenere il proprio avamposto, cullandosi, o, poiché si è attivato un dialogo, mettersi in gioco e provare a fare qualcosa, come ad esempio un romanzo.

Un vostro ascoltatore-lettore può percepire dai toni delle vostre opere una certa vena anti-sistema, di chi non riesce a trovare una collocazione, una situazione comune a molti vostri coetanei. Vi considerate dei “portavoce” della vostra generazione?

Albi: Questi sono aspetti che in parte permeano le nostre figure, ma noi siamo semplicemente i portavoce di quello che pensiamo. Il nostro intento non è quello di erigerci a bandiere, anzi, le bandiere non ci piacciono. Siamo anti-sistema, ma nel senso che se il sistema ha problemi, noi lo critichiamo.

Lodo: Parte di quello che facciamo, compreso il metterci in gioco, il far ridere, è qualcosa che facciamo proprio per toglierci di dosso questo rischio. È sempre una semplificazione del fruitore, il quale seleziona alcuni stralci di un’opera e si fa un’idea. In realtà è più interessante dare una lettura complessa delle cose e porre delle domande. Questo è quello che possiamo fare noi, perché non siamo dei “santoni”, non diamo delle risposte. Le risposte le danno i partiti, le religioni, e molto spesso non sono risposte esaustive. Noi attiviamo un movimento: portiamo l’ascoltatore da un luogo in cui è sicuro che la vita sia in un certo modo ad un altro in cui metti in crisi delle certezze. Non siamo nel nuovo porto di certezze, non ci interessa.

INTERVISTA – Con Li Daiguo la tradizione cinese incontra quella occidentale a Musicultura

È un emozionante incedere di suoni vibranti, prima lenti e poi, di colpo, accelerati, quelli che Li Daiguo fa rivivere nel cortile del Palazzo Municipale in occasione de La Controra di Musicultura. Un piede nella world music e l’altro nel mondo dell’improvvisazione, l’artista sino–americano si è da poco affermato, oltre che come interprete, in qualità compositore, avviando in Cina e in tutto il mondo una gratificante carriera da solista.

Improvvisazione, certo, ma all’interno di canoni e regole ben definiti, spiega Li Daiguo, che descrive così il suo metodo compositivo:  «È l’emozione del momento che mi spinge a suonare una certa melodia, che solo in un secondo tempo si cristallizza in un brano vero e proprio. L’improvvisazione è dunque preludio del comporre. E non è affatto eccezionale: tutti i grandi compositori, da Bach a Beethoven, cercavano ispirazione nelle performance estemporanee per scrivere le loro opere». Al pubblico de La Controra l’artista ha proposto una selezione di brani strumentali per pipa e violoncello, strumenti simbolo di tradizioni musicali – quella cinese e quella occidentale – tra le sue maggiori forme d’ispirazione.

Hai una doppia laurea in violino classico e letteratura. Credi che si possano definire forme d’arte complementari? Lo studio della letteratura ha influenzato in qualche modo la tua futura carriera musicale?

Si, ma solo nella misura in cui ha influenzato la mia vita. Lo studio della letteratura ha influenzato la mia concezione del mondo, il modo che ho di recepire le informazioni, i miei valori, le mie filosofie. Per quanto riguarda la loro somiglianza, sai, nel mondo delle idee e della parola si può rendere possibile tutto quel che si vuole. Mettiamo, ad esempio, che si voglia sostenere che pittura e musica siano simili: ci si limita a prendere qualche elemento che ne dimostri l’evidenza e si costruisce una tesi, proprio come fa un avvocato; e lo stesso vale nel caso in cui si voglia affermare l’opposto. Personalmente, sono legato alla musica e alla letteratura in maniera diversa, ma riconosco che, volendo, potrei sostenere entrambe le argomentazioni.

Sei cresciuto negli Stati Uniti, salvo poi far ritorno in Cina, tuo Paese d’origine. Avendole sperimentate entrambe, come descriveresti le tradizioni musicali di questi due Paesi?

In Cina c’è una gran varietà di tradizioni musicali perché ci sono diverse etnie, anche se quella Han è senz’altro la più antica. Pensa che persino in questa coesistono stili diversi! Credo che sia l’elemento temporale a fare la differenza tra queste due culture. Per quanto riguarda l’America, cosa si intende per tradizione musicale americana? Non sono neppure certo che quest’espressione abbia un qualche significato: è forse quella dei nativi americani, o il pop occidentale, il blues, il rock’n roll, il jazz o, magari, è tutti questi generi mescolati insieme? La musica americana è molto più complicata, molto più moderna, ma, soprattutto, molto più giovane.

È agli anni dell’Università che risale, se non sbaglio, la tua scoperta della world music, destinata a diventare una parte essenziale del tuo repertorio…

A dire il vero penso di aver scoperto la world music, o global music, comunque la si voglia chiamare, sin dalla mia adolescenza. In quegli anni, infatti, oltre alla musica classica, cominciai a studiare la bluegrass, uno stile del country, e l’erhu, un tipico strumento cinese. Pertanto una certa varietà di stili e tradizioni faceva già parte di me, ma certamente il periodo universitario mi permise di espandere le mie conoscenze. Poco alla volta mi appassionai alla cultura musicale dell’India, del Nord Europa, dell’Indonesia, come se stessi completando un puzzle.

Che cosa significa per te la global music? È forse una ricerca dell’universale?

Se universale sta per “vero in ogni tempo e ogni luogo”, allora la risposta è no; questo significherebbe per sempre, prima e dopo: se è questo ciò di cui stiamo parlando, non sono nemmeno sicuro che sia qualcosa che possiamo trovare, che sia qualcosa che la mente umana possa concepire. C’è una citazione di Dubussy (compositore impressionista francese) che mi sta particolarmente a cuore: alla domanda su quale fosse il suo metodo compositivo, rispose: «Prendo tutte le dodici note dello spartito e uso quelle che voglio, mentre non uso quelle che non voglio». Penso che sia un buon modo per esprimere l’altrimenti ingiustificabile gusto personale. Perché si ha bisogno di un suono e non di un altro? Perché sono incuriosito dagli strumenti africani e dei loro ritmi? Perché mi accade lo stesso con quelli del Medio Oriente? Perché amo fonderli insieme? La verità è che studio gli strumenti, le tradizioni e le teorie che hanno il potere di “parlarmi”. In fondo, non è altro che una questione d’estetica: perché mi piace questo colore (indica la camicia che indossa, n.d.r.), e tutte le risposte che potrei dare, che potrei immaginare o inventare, non sono davvero significative, perché potrei sempre inventarne un’altra e tutte avrebbero la stessa probabilità di essere vere. Come possiamo entrare nella nostra mente e determinare perché ci piace un certo sapore, o il motivo per cui si ama il viso di questa persona ma non si è attratti da quest’altra? Vedi, è solo un gioco, non si potrà mai parlare di ricerca della verità.

Non è raro che tu ti esibisca con altri artisti, non solo musicisti, ma anche esponenti di forme d’arte insolite per il palco di un concerto: ballerine di butü, attori, pittori dal vivo e persino clown sono solo alcuni dei performer di cui ti sei circondato nel corso degli anni. Cosa si nasconde dietro questa scelta?

È vero, lo facevo soprattutto in passato perché ero solito fare street performance. Quando si suona in quel mondo, specialmente se ci sono molti artisti di strada, è naturale incontrare gente interessante con cui suonare insieme. Non sono però veri concerti, il pubblico che vi assiste non è fisso. Tuttavia, ora mi capita sempre di meno. All’inizio lo facevo più per divertirmi, queste esibizioni mi piacevano per il loro carattere inusuale e imprevedibile, ma quando si cerca di fare di queste improvvisazioni delle performance organizzate diventa piuttosto difficile, persino quando si tratta di musica e modern dance. La cosa più difficile è fare in modo che esprimano vere emozioni. Lo stesso accade per le colonne sonore: richiede moltissimo tempo e un’indicibile dedizione per raggiungere un buon livello. La cultura multimediale ha semplificato i gusti degli ascoltatori che dalla musica, ormai, cercano altro che freschezza o un gusto vagamente esotico.

È nota la tua passione per la musica di strada e per i Festival che, come nel caso di Musicultura, portano la canzone d’autore in mezzo alla gente, anziché farla diventare un privilegio per pochi. Qual è, a tuo parere, il valore aggiunto di manifestazioni di questo tipo rispetto al più tradizionale concerto?

Penso che tutti i tipi di scenari musicali che vedono il massimo sforzo da parte di artisti e organizzatori abbiano un loro valore e suscitino effetti diversi, inclusi quelli realizzati per un pubblico ridotto. Non farei una classifica di valore: a ciascuno riconosco il loro senso e la loro importanza. Personalmente, sono più per quei festival che prevedono eventi raccolti, proprio come in questo caso. La mia musica, del resto, è pensata proprio per allestimenti non troppo grandi, in cui l’elemento rituale predomina su quello dell’intrattenimento.