Lo Sferisterio, ombelico del mondo: la musica di Xiao He dall’Oriente a Musicultura XXVI

Il musicista e compositore cinese Xiao He si è esibito in una emozionante performance all’Arena Sferisterio, durante la seconda serata di Musicultura XXVI. Ospite attesissimo, Xiao He è riuscito a regalare al pubblico irripetibili momenti di musica: una musica portatrice di diverse tradizioni e differenti influenze, in cui il mix tra passato e presente artistici è confluito in una rappresentazione non solo musicale, ma anche teatrale perché, come ha affermato lo stesso He, «entrando e salendo sul palco dell’Arena Sferisterio, mi è sembrato di essere in un luogo teatrale e, quindi, mi sono sentito libero di teatralizzare i miei movimenti. Ho avuto l’impressione che lo Sferisterio sia più adatto a spettacoli teatrali, che non musicali».

Ad accompagnare Xiao He, il musicista Patrizio Fariselli che, negli anni, è diventato un sostenitore del Festival ed una presenza quasi costante: «Musicultura è un’occasione importante per gli artisti emergenti» ha affermato Fariselli;  «il consiglio che sento di dare ai giovani cantautori è quello di non cercare il successo a tutti i costi mettendosi nelle mani del mercato e rischiando così di perdere la qualità, l’onestà intellettuale e l’attenzione per la musica intesa come opera d’arte. È importante sviluppare un pensiero musicale e condividerlo, ed avere rispetto per le proprie idee, perché per questo passa il rispetto per gli altri».  La felice interazione artistica che si è creata tra Xiao He e Patrizio Fariselli fa pensare che la musica abbia, in questo caso, portato a termine il suo ruolo, ovvero quello di rendersi mezzo efficace affinché diverse culture possano dialogare in maniera pacifica tra loro. Riguardo a questo, però, Xiao He ci tiene a precisare che «bisogna innanzitutto distinguere tra cultura e musica: nella musica ci sono fattori che provengono da o sono legati alla cultura, ma la musica in sé non può intervenire sulla cultura. O meglio, la musica non può essere messa al servizio della cultura, né tantomeno essere rappresentativa di diverse culture, perché è essa stessa cultura, ed è un insieme di persone, di linguaggi, di influenze e di storie». Due artisti diversi per storia e stile, due personalità provenienti da mondi lontani che, però, negli ultimi anni sembra si stiano avvicinando inesorabilmente: abbiamo chiesto a Xiao He e Patrizio Fariselli cosa pensano della globalizzazione e del processo di mondializzazione attualmente in corso: Patrizio Fariselli: «”Globalizzazione” è una parola orribile che, anche dal punto di vista culturale, rimanda al concetto di entropia, ovvero quando le cose si mischiano e si tende a perderne l’identità, avvicinandosi ad un colore neutro che ne appiattisce la conservazione delle proprie radici. Mi piacerebbe piuttosto usare il termine “interscambio”, che richiede un profondo processo di umiltà nei confronti dell’altra cultura: solo in questo modo è possibile iniziare a dialogare e produrre qualcosa di altro. Quello che io e Xiao He abbiamo realizzao sul palco dello Sferisterio non è né qualcosa di totalmente cinese, né qualcosa di totalmente italiano: è nato tutto tra le nostre dita, perché siamo maneggiatori del suono ed improvvisatori, dunque rispondiamo agli stimoli l’uno dell’altro con il massimo dell’attenzione e con grande umiltà. Il punto di connessione tra Oriente ed Occidente probabilmente non esiste o meglio, per trovare un elemento comune bisogna tornare a 30, 40 mila anni fa quando, nelle caverne, si riproducevano gli stessi simboli. L’intelligenza e la buona volontà, sì: queste sono universali». Xiao He: «Credo che la distinzione Oriente/Occidente oggi sia arbitraria e generalista, addirittura non vedo differenze tra i diversi Paesi; le persone, in ogni parte del mondo e a prescindere dagli Stati di appartenenza, condividono una comune speranza: raggiungere ciò che viene dall’unione tra felicità e fortuna, ovvero conquistare ciò che rende davvero piena la vita, al di là dell’appartenenza culturale o nazionale. Il problema nasce quando subentrano i conflitti tra le persone o le nazioni, perché ci si dimentica dell’importanza della speranza, che viene sostituita dal desiderio: nel momento in cui ci si concentra sul desiderio, sorgono i conflitti a livello sia interpersonale che macroscopico. La chiave di connessione consiste nel tornare a ricordarsi della speranza della felicità, più che del desiderio».

INTERVISTA – Mauro Coruzzi a Platinette: il grazie che non ti ho detto

Mauro Coruzzi, in arte Platinette, è il primo ospite dei tre appuntamenti previsti da La Controra con Le parole che non ti ho detto, un format ideato da Vincenzo Galluzzo, che in Musicultura ha trovato uno dei primi palcoscenici e che già si proietta nel palinsesto televisivo: ogni protagonista scrive una lettera a una persona cara, spinto dall’esigenza di dirle tutto quello che non ha mai avuto il coraggio o il tempo di dire.

Mauro scrive a Platinette una toccante confessione nel corso della quale la ringrazia per averlo aiutato ad uscire da una condizione giovanile difficile e frustrante e la prega ancora: “non mollarmi adesso al mio destino di creatura votata all’infelicità”. Dopo aver ripercorso alcuni dei tanti momenti di questa lunga, a tratti travagliata ma salvifica “convivenza nello stesso corpo”, Mauro condivide con Galluzzo pensieri, aneddoti e indiscrezioni legati a quell’inedita possibilità di essere “due persone in una sola vita”. Anche la redazione di “Sciuscià” riesce a strappargli un’intervista e ad imprimere per i suoi lettori almeno qualche istantanea di un personaggio pubblico ormai familiare da una prospettiva inusuale.

Speaker radiofonico, cantante, scrittore, autore, conduttore televisivo e molto altro: a quale delle sue anime artistiche non potrebbe rinunciare?

Alla radio: è stato il mio primo lavoro per il quale ho interrotto l’università. Feci fino al primo anno e poi mollai di colpo quando nacque la prima radio privata della mia città, io fui pazzo dell’idea e dopo un mese cominciai a fare il pendolare tra Parma e Bologna, dove frequentavo il DAMS . È il lavoro con cui ho iniziato e con cui vorrei finire, per me ha la priorità. Se domani capitasse la possibilità di fare nello stesso momento due cose e fossi obbligato a scegliere, non avrei dubbi.

Quando negli anni Settanta esordì con il collettivo en travesti Le Pumitrozzole, primo gruppo di teatro omosessuale militante in Italia, l’arte era impegno politico e l’autoironia era una lama tagliente e pericolosa. È ancora così? Cosa ricorda di quegli anni? Cos’è e cosa potrebbe essere militanza oggi?

Quella di quegli anni era, almeno per quanto riguardava me e il gruppo del quale facevo parte, una militanza pro forma. Non vorrei scadere nella volgarità nel dirti questo, ma allora – era la Bologna del ’77, negli anni in cui si arrivò a un estremismo tale per cui si verificò anche quel famoso fatto di cronaca che coinvolse il DAM, nel pieno della diffusione delle droghe, negli anni del postpunk – noi partecipavamo alle manifestazioni perché gli operai, in virtù della cosiddetta “pratica dell’amore libero”, non dicevano mai di no, perché era politicamente corretto far così. Noi, certo, eravamo iscritte all’ARCI e quant’altro, ma se l’ARCI ci ingaggiava per una serata e poi non ci pagava, noi andavamo lì a battere le porte per avere quanto ci spettava. Non mi piace la “militanza di regime”, qualunque essa sia e non è vero che gli omosessuali sono tutti di sinistra e votano tutti a sinistra, se fosse così la metà di Cologno Monzese non dovrebbe esistere. Io credo che la vera militanza la si faccia all’interno delle istituzioni. Io non sono mai stato bocciato, ho sempre dato esami col massimo dei voti finché ho studiato, però se c’era un motivo per il quale occupare io lo facevo, poi avevo le mie sospensioni però non mi sono mai fatto cogliere impreparato. La vera militanza non è quella politica, trovo sia molto più significativo dare degli esempi, chiaramente ragionati.

Con il passare degli anni la prospettiva che ognuno ha su se stesso muta e muta il rapporto che ognuno intrattiene con il suo o i suoi “personaggi”. Per lei – che ha dato un corpo, delle lunghe ciglia e una capigliatura biondo platino all’alter ego che la abita – come si è evoluto quel rapporto?

Si è un po’ chiarito adesso; diciamo che ho imparato i pregi di una convivenza non forzata, alla quale un giorno mi ha convinto una persona che io stimavo e tuttora stimo molto, che è Costanzo. Mi ha detto, preso dal suo intuito meraviglioso: “vedo che quella roba che si mette addosso comincia a starle un po’ stretta, e non parlo di taglie, provi a svestirsi un po’ ché ce la fa lo stesso”. Così mi convinsi a fare questa svestizione, andai a “Buona Domenica” in giacca e cravatta e capii che aveva ragione lui. Però non ho mai ucciso quell’altra perché ormai la convivenza è datata. Poi quando hai la possibilità di fare due vite in una sola – se vuoi essere cretina col botto lo sei fino in fondo, se vuoi far notare al mondo intero che hai studiato un po’, che parli decentemente la lingua, che sai chi sono Moravia e Calvino, a proposito di esami di maturità, e li hai anche letti – perché rinunciarvi?

Nel corso della sua carriera ha calcato innumerevoli palcoscenici, lavorato con decine di artisti e personaggi dello spettacolo: qual è il momento che ricorda con maggiore piacere e c’è invece qualcosa che recrimina e cambierebbe del suo passato?

Non recrimino nulla perché sono tutte scelte che ho fatto e le esperienze sono importanti e vanno vissute. L’esperienza più strana che ho fatto, non tanto per me, quanto per come la hanno giudicata gli altri, risale agli inizi del 2000, quando ho diretto con Irene Pivetti, che arrivava dalla lega, “Bisturi”. Era un programma in prima serata sulla chirurgia plastica, di cui non abbiamo fatto uso né io né lei visibilmente. E risultò talmente scioccante. Non tanto per noi italiani, ma, ad esempio, per gli americani.  Ricordo con stupore che arrivò il “New York Times” ad inondarci di foto e servizi. Per l’America è impensabile che quella che era stata la seconda carica istituzionale del Paese facesse un programma con un travestito. Più recente e di tutt’altro genere è l’esperienza del cinema. Ho interpretato una parte in un film di Ozpetek, “Magnifica presenza” e ho capito che mi piace molto, o almeno mi piacerebbe molto provare ad imparare.

Se non avesse scelto di scrivere al suo alter ego la “lettera impossibile” de Le parole che non ti ho detto, il progetto ideato da Vincenzo Galluzzo e presentato qui a Musicultura, a chi altro l’avrebbe indirizzata?

Se vuoi una risposta personale, di Mauro, l’avrei scritta a mia madre, anche se sarebbe un po’ troppo ovvio, nel senso che è molto facile che gli omosessuali anziani pensino alla madre. Se l’avessi invece dovuta scrivere a una persona che ho avuto l’onore di incontrare e di frequentare, ma alla quale non ho mai detto tutto perché non abbiamo mai parlato di musica, l’avrei indirizzata a Mina. Reputo un regalo dell’esistenza averla sentita cantare dal vivo per due volte, aver mangiato a casa sua e le scriverei quello che non sono mai riuscita a dirle, perché quando ce l’hai davanti, resti lì impalato, come un cretino.

Catherine Spaak sceglie Musicultura per indirizzare i suoi pensieri al padre Charles

Anche la bellissima Catherine Spaak ha preso parte ai tanti eventi organizzati da la Controra, in quella che è stata una delle settimane più vive per la città. Ieri pomeriggio alle 18.30, nel cortile gremito di gente di Palazzo Conventati, l’attrice è intervenuta per leggere una lettera dedicata al padre Charles, nell’ambito de  “Le parole che non ti ho detto”, progetto ideato da Vincenzo Galluzzo.

Coinvolti nell’iniziativa anche Alessandro Cecchi Paone e Mauro Coruzzi (in arte Platinette), i quali hanno voluto indirizzare i propri pensieri a persone che non ci sono più o, come ha fatto Coruzzi, al personaggio che essi interpretano nella vita. Catherine ha esordito dicendo: “Questa è una lettera che può sembrare molto dura, ma fa capire che non è sempre vero che i genitori amano i figli come loro si aspetterebbero. La figura genitoriale maschile è esplosa solo negli ultimi anni; prima la responsabilità e l’educazione dei figli erano soprattutto compito delle madri”. È iniziato così quello che si è rivelato essere un vero e proprio racconto-confessione struggente, che ha impressionato nel profondo gli ascoltatori intervenuti all’evento. “Conserverò sempre il rammarico di non aver potuto godere della figura di un padre a tutto tondo – ha proseguito la Spaak – poiché lui, regista affermato e impegnato quale era, viveva sempre immerso nel mondo dei suoi personaggi e dei suoi film. Tra l’altro non mi sono mai sentita troppo apprezzata da lui”. Le parole dell’attrice hanno poi preso una piega vagamente polemica sul ruolo femminile troppo spesso oscurato dall’ideologia di una società maschilista: “Mio padre, che non credeva troppo in me e in mia sorella – ha spiegato rammaricata la Spaak – secondo me guardandoci si augurava che noi due, femmine e neanche troppo promettenti, avessimo trovato presto  un marito e ci fossimo sistemate. Alla luce di quello che invece è stata la mia vita, mi viene quasi da sorridere”.  Poi invece un episodio ha cambiato completamente le cose: “A casa di mia madre ritrovai delle foto d’infanzia di mio padre, non so cosa mi smosse dentro la vista di quelle immagini ma provai una sorta di tenerezza per quello che, prima di essere un uomo affermato, è stato semplicemente un bambino. Da lì ho iniziato a riconsiderare i sentimenti che nutrivo nei confronti di quello che restava, comunque, mio padre”.  Al termine dell’incontro, la Spaak ha confidato quello che forse resta tutt’ora uno dei suoi crucci più grandi, e cioè non essere riuscita ad essere per i propri figli una mamma “all’italiana”, presente e protettiva, ruolo che un’attrice famosa e presa dai mille impegni lavorativi non riesce ad assolvere. Quello con Catherine Spaak è stato un altro appuntamento apprezzatissimo dal pubblico, di alto spessore, e che si è aggiunto al successo degli eventi organizzati da La Controra in vista del gran finale allo Sferisterio.

INTERVISTA – «Per essere un poeta sono troppo di buonumore»: Guido Catalano ospite di Musicultura 2015

Nato alle 8.50 di un 6 febbraio del ’71, – così si presenta attraverso la sua poesia “Curriculum Vitae” – Guido Catalano arriva a Macerata, ospite di Musicultura 2015 e della settimana culturale de La Controra.

Il poeta torinese dà voce ai suoi versi in un reading poetico agli Antichi Forni, trascinando nel suo mondo di amori irriverenti e non convenzionali il pubblico, divertendolo, facendolo ridere di cuore. E di poesia in poesia, di aneddoto in aneddoto, di battuta in battuta il tempo vola e l’incontro finisce. Ma qualche ora più tardi lo ritroviamo sul palco dell’Arena Sferisterio dove regala alla platea ancora poesie e sorrisi, salutando Macerata tra scrosci di risate e applausi.

L’amore. Ci si potrebbe azzardare a dire che è un tema che ricorre spesso nelle sue poesie. Al di là dell’ironia, qual è l’idea di amore che ha Guido Catalano? E quale idea di amore si vuole trasmettere in “Ti amo ma posso spiegarti?“

Il tema amoroso ricorre molto in ciò che scrivo. Azzarderei che il 70% circa delle mie poesie parlano d’amore. L’amore è un lavoraccio. Può dare grandi soddisfazioni. Può essere la benzina che ti fa andare avanti ma può anche essere la palla di cannone che ti affonda intanto che veleggi in mare aperto.

Rockstar mancata – o anche no –,  poeta professionista vivente, cabarettista, reduce di centinaia di reading poetici l’anno e autore di sei libri di poesie, nel «Preambolo dell’Autore» del suo ultimo lavoro pone una serie di interrogativi sulla poesia e sull’essere poeta. In base alla sua personale esperienza, senza voler tentare di chiedere risposte universali e definizioni generalizzanti, che significa al giorno d’oggi parlare del mestiere di poeta? Quali sono le caratteristiche che lo delineano come figura istituzionalizzata nel mondo del lavoro e nella società?

Non credo che si possa parlare scientificamente e istituzionalmente del “mestiere di poeta” anche perché attualmente, in Italia, è probabile che i “poeti professionisti” si contino sulle dita di una mano. Una mano con poche dita. Credo che il poeta professionista, oggi, sia l’eccezione che conferma la regola. La regola è che non esiste questo mestiere. Dunque probabilmente anche io non esisto e questa intervista non è mai stata fatta.

Nel suo articolo Poesia e rock contenuto in Un weekend postmoderno, Pier Vittorio Tondelli scriveva che il rinnovamento della poesia collettiva dei suoi anni era dato dalla figura dei musicisti. Affermazione esagerata in positivo, in negativo, o mezza verità?

I miei poeti preferiti sono i cantautori.

Dunque abbraccio senza se e senza ma questa idea.

D’altra parte io coi musicisti lavoro moltissimo e voglio loro del bene sincero.

Rimanendo nell’ambito del rapporto che lega poesia e musica e tenendo conto della compresenza di entrambe queste forme d’espressione artistica nei suoi progetti, come interagiscono e s’influenzano vicendevolmente tra loro? Inoltre qual è a suo avviso la distanza che separa il lavoro su testo di un cantautore e quello di un poeta?

La poesia non ha bisogno di musica, non è una canzone.

Una poesia riuscita ha il ritmo e la musica dentro.

Come ho detto prima, per me il rapporto con la musica e i musicisti ha rappresentato e rappresenta un passaggio fondamentale. D’altra parte io non volevo fare il poeta ma la rock star.

Non ce l’ho fatta e ho ripiegato.

Leggendo le sue poesie si ha l’impressione di essere trascinati dalle parole, dalle frasi: che si segua un ritmo di corsa o di passeggiata, i versi paiono imporre un loro andamento, tanto che viene naturale – se non si ha mai avuto la fortuna di assistere dal vivo a un reading – di andare a cercare il loro primo creatore trascinati dalla curiosità di ascoltarli nella consistenza della sua voce. Quanto è importante l’atto della lettura ad alta voce dei suoi componimenti e quanto e in che modo, nella composizione, influisce sulla ritmica delle parole?

Il rapporto “live” con il pubblico è parte fondamentale del mio lavoro.

Ho iniziato a fare reading quindici anni fa perché era l’unico modo per avere un contatto diretto con il pubblico.

Mi si dice che le mie poesie lette su un libro non raggiungono la potenza di quando vengono ascoltate dalla mia voce. Credo sia vero.

Credo che negli ultimi anni, la composizione delle mie poesie sia influenzata dalla coscienza  che ciò che sto scrivendo sarà letto in pubblico.

Ciò che faccio d’altra parte è un misto di poesia, teatro e musica, dunque è giusto che sia così.

Tante delle sue poesie prendono forma di dialoghi, di scambi, botta e risposta continui e rapidi. È una scelta stilistica che assume una funzione ben precisa oppure è conseguenza d’una necessità espressiva?

Amo i dialoghi ben scritti. Dunque cerco di proporre questa forma perché mi diverte e perché mi permette di parlare d’amore come una semplice poesia non riuscirebbe. Nel dialogo – tipicamente tra uomo e donna – cerco di esplorare il fantastico, difficilissimo, anarchico, confuso, meraviglioso mondo della comunicazione amorosa. E ogni tanto ci azzecco.

INTERVISTA – «Mi piace essere al servizio della musica»: Syria ospite di Musicultura 2015

Cantante con alle spalle quasi vent’anni di carriera, interprete di brani di grandissimi della musica italiana, madre e artista dalle mille sfaccettature, ma soprattutto una donna con una forza, un’energia e uno straordinario amore per la musica che non possono non arrivare a chiunque ascolti la sua voce e le sue parole. Si parla di Syria, nome d’arte di Cecilia Cipressi, anche lei ospite della XXVI edizione di Musicultura.

In Piazza Cesare Battisti, in occasione di uno degli eventi de La Controra, la cantante romana ha intrattenuto il pubblico maceratese con i suoi racconti e la sua musica. Presentata e intervistata da Michela Pallonari, ha parlato del suo percorso artistico, dei suoi progetti, della sua vita di madre e donna innamorata del suo mestiere e ha regalato agli spettatori emozionanti momenti di musica, cantando “Momenti” – testo di Sergio Endrigo donatole dalla figlia Claudia e musicato da Cesare Malfatti – e “Vacanze romane”. La Durante la serata, la sua esibizione sul palco dello Sferisterio dal quale ha allietato la platea dell’Arena con la sua voce, prima da sola e poi duettando con Amara in una splendida ed emozionante interpretazione di “C’è tempo”, mostrando a tutti quanto nella musica sia importante e fondamentale condividere.

Nella tua carriera di cantante figurano collaborazioni con molti artisti della musica italiana e  i brani dei tuoi dischi portano firme di autori importanti, solo per citarne alcuni: Mattone, Antonacci, Jovanotti, Nannini, Ferro, Giorgia, Pezzali. Guardando la tua esperienza retrospettivamente potresti raccontarci un evento o un rapporto artistico in particolare fondamentale per te e la tua carriera, una figura, un modello di riferimento imprescindibile senza cui non saresti la Syria di adesso?

Te ne nomino uno solo: Lorenzo Jovanotti. L’incontro con lui ha ribaltato le cose, mi ha scritto delle canzoni così belle, così pop, così radiofoniche che chiaramente hanno contribuito a una svolta. Dal punto di vista artistico e sul piano umano ho conosciuto un maestro, un amico, una persona che ha creduto in me e che mi ha spronata ad avere una visione magari meno melodica della musica – comunque i miei esordi sono quelli – e ad affrontare le cose con più coraggio e sperimentazione. Quindi lui ha dato il via a una serie di cose, poi nella mia vita in questi vent’anni ci sono stati vari incontri ed esperienze che mi hanno fatto venire voglia di diventare ancora più curiosa di quello che ero.

Il 2 marzo di quest’anno insieme alla chitarra di Tony Canto e ai testi di Luca De Gennaro hai debuttato con Bellissime nel Teatro Comunale Garibaldi di Enna. Il progetto, mediante cui restituisci alla vita le voci di  «interpreti femminili che hanno reso immortali delicate melodie», permette agli spettatori di compiere un viaggio nella storia della musica italiana al femminile dagli anni ’40 ad oggi. Ma come e quando nasce l’idea di Bellissime?  

Io nasco come interprete quindi ho sempre amato accogliere le parole scritte da altri autori, mi è sempre piaciuta l’idea di farle mie ed è come se in qualche modo si recitasse una storia. Riflettendo sul panorama femminile della musica italiana e su quello che le donne hanno fatto con le canzoni ho sentito la necessità di sentirmi come un tramite rispetto a storie e brani che hanno lasciato il segno. Mi è venuta voglia di rivisitarle e di viverle a modo mio, non per esaltare le mie doti vocali, ma semplicemente per raccontare quello che in fondo è successo anche a me: grazie alle canzoni scritte da grandi autori per grandi donne avere il piacere, la voglia di accostarsi a certe realtà. Quindi l’idea di fare questo progetto scaturisce dall’amore profondo che ho per artiste come Ornella Vanoni, Gabriella Ferri, Dalida, Mina, Rita Pavone: tutte quelle donne che un po’ mi hanno condizionato e che mi hanno permesso di crescere. Questo mestiere è splendido ma ci sono delle basi fondamentali che bisogna conoscere, approfondire la storia di alcune personalità femminili. L’idea di Bellissime nasce sotto un ulivo in Puglia insieme al mio caro amico Luca De Gennaro – che poi ha scritto i testi di questo spettacolo – e nasce dalla voglia semplicemente di divulgare certe storie, certi racconti di donne. Donne che sono anche amiche, perché si parte da Nilla Pizzi ma si arriva anche a Malika Ayane. È così, è un racconto. Dopo tutti questi anni credo che sia bello fare un disco, pensare a me, ma onestamente mi piace anche mettermi dall’altra parte e osservare, scrutare, imparare. Ho semplicemente il desiderio di sedermi su uno sgabello e di raccontare cosa ho scoperto, come l’ho scoperto e chi c’è dietro una canzone, insomma studiare assieme al pubblico.

Nel 2009 esce Vivo amo esco un EP prodotto in collaborazione con gli Hot Gossip e che comprende anche Io ho te cover della Rettore in cui hai duettato con i Club Dogo. Syria si trasforma in Airys e la canzoni rispecchiano questa metamorfosi. Da che tipo di impulso deriva questo bisogno di cambiamento? Credi che sia fondamentale per un artista approcciarsi a diversi stili e cercare sempre nuovi stimoli durante il suo percorso musicale?

Io penso che sia soggettivo per ognuno. Ci sono cantautori che hanno la fortuna e la possibilità di saper scrivere e magari di dare al proprio mondo musicale un senso già dall’inizio, cantautori che raccontandosi attraverso i loro dischi,  seguono una coerenza di fondo dettata da uno stile, un’attitudine. Poi ci sono quelli come me, gli interpreti che si mettono al servizio della musica che accolgono le canzoni degli autori che scrivono per loro e che quindi sono abbastanza coinvolti, di progetto in progetto, in qualcosa di diverso. Se si interpretano brani di artisti diversi non sempre può essere in un filo conduttore – sia nella scrittura che nella produzione. A me è successo questo: io nasco nella melodia, sono partita con Mattone, poi negli anni ho incontrato Biagio Antonacci, Tiziano Ferro, Jovanotti, Giorgia, tante persone che mi hanno regalato canzoni e mi hanno permesso di sperimentare. Dietro a certi modi di rappresentarsi c’è sempre un gusto e il mio gusto non è mai stato coerente. Questo perché fin dall’inizio sono stata molto curiosa.  All’estero è più semplice, non c’è niente di male se un giorno si fa un tipo di musica e poi si cambia genere. Perché no? Io mi voglio concedere il lusso di sentirmi libera. Poi è chiaro che c’è una parte di pubblico che apprezza e qualcun altro che trova strano il mio bisogno di passare dopo anni dalle melodie, al lavoro in teatro con Paolo Rossi, alla sperimentazione con le band indipendenti, e infine a un disco elettronico. Ma a me piace vivere la musica così, almeno finché me ne danno la possibilità. Mi diverto perché ho stimoli e perché incontro persone che mi coinvolgono. Non scrivo, non sono una cantautrice coerente: sono un’interprete. Un esempio di questo modo di approcciarsi alla musica, anche se si tratta di un caso limite, potrebbe essere quello di Mike Patton: ha un progetto dedicato alla musica degli anni ’60,  Mondo cane, a cui ha partecipato un’orchestra e allo stesso tempo è anche il cantante dei Faith No More, una band alternative metal.

Parliamo invece di un altro tuo disco, Un’altra me, uscito nel 2008. In questo tuo lavoro decidi di interpretare i brani di alcuni gruppi del panorama indipendente italiano. Come mai questa scelta? Qual è il filo conduttore che lega le canzoni?

Ricordo che quando ho fatto questo disco stavo lavorando al teatro con Paolo Rossi ed era un periodo in cui sfogliavo molte riviste musicali, leggevo recensioni, ascoltavo tanta musica. E come è possibile non soffermarsi di fronte a tutto ciò che ha da offrire il panorama indie italiano? Poi tutto è partito dai Perturbazione, da lì, poi, sono arrivata ai primi dischi dei Baustelle e ai Non voglio che Clara: è stata una ricerca, non affannosa e affannata, ma dettata dalla curiosità. In quel periodo viaggiavo molto e, anche avendo una figlia, quando potevo trovavo il tempo di approfondire di più, di continuare questa ricerca musicale. Poi pian piano mi sono accostata a questo mondo, ho conosciuto i Perturbazione, ho incontrato Cesare Malfatti dei La Crus che stimavo già da tempo e a cui poi ho chiesto di provare a fare un disco. Anche se c’era un po’ questa scissione tra il pop e l’indie, ho trovato una grande apertura da parte di questa realtà e ho incontrato delle persone che mi hanno permesso di prendere coraggio e fare un mio tributo alla musica indipendente. Tra tutte le canzoni che ho scelto ho trovato molto affascinante prima di tutto la scrittura, ho preso canzoni che non riuscivo a trovare nel pop: avevo bisogno di raccontare a modo mio quello che è stato scritto nell’indie. Non per cercare di inventarmi qualcosa di nuovo ma semplicemente per fare un tributo a delle realtà che bisognerebbe approfondire. Inoltre ho trovato molti amici, tutti quelli che sono stati coinvolti li ho incontrati di nuovo negli anni, ci ho condiviso delle esperienze e tutti hanno compreso il fatto che da parte mia c’era una genuina voglia di accostarmi a loro per raccontare anche al mio pubblico che c’è un mondo che vale la pena scoprire. E credo che Un’altra me sia il mio disco più bello.

INTERVISTA – «Magia è quando fai le cose con amore»: Aminata Fofana si racconta a La Controra di Musicultura 2015

È una giornata uggiosa e grigia a Macerata, ma gli Antichi Forni sono illuminati dalla presenza della scrittrice Aminata Fofana che, con la sua grinta e la sua sincerità, riesce a spazzare via qualsiasi nuvola. A presentarla, in occasione di questo appuntamento de La Controra, è Ennio Cavalli, che ha già avuto l’opportunità di conoscere l’autrice e di dare una sbirciata al suo mondo durante un incontro a Tuscania.

Aminata Fofana, nata in un piccolo villaggio tribale della Guinea, lavora da molti anni in Europa, tra Francia, Italia e Inghilterra. Già modella e cantautrice, nel 2006 esordisce con il suo primo romanzo, La luna che mi seguiva. Il libro che l’autrice presenta al pubblico maceratese narra la storia di una bambina, del nonno sciamano e di un remoto villaggio africano lontanissimo. E, attraverso la lettura di alcune delle pagine più belle, Aminata parla del suo mondo, delle sue tradizioni, del suo coraggio, delle sue scelte, suscitando negli spettatori un sincero interesse e il desiderio di chiedere, di conoscerne di più.

Il suo primo romanzo, La luna che mi seguiva, racconta una storia legata alla sua infanzia in un piccolo villaggio tribale della Guinea, una storia che nasce da una cultura radicalmente diversa da quella Occidentale. Dopo aver lasciato il suo luogo natio e aver vissuto e lavorato per molti anni in Europa, cosa l’ha spinta a richiamare le sue origini attraverso la scrittura di questo romanzo?

Ero in un momento della mia vita in cui pensavo di suicidarmi un giorno sì e uno no. Poi è successo qualcosa. Stavo molto male, ero sdraiata sul letto – abitavo a Campo de’ fiori – ed era come se tutto il rumore, il vocio della gente, venisse assorbito, attutito e sostituito da altri suoni: eravamo io e altri bambini, sei bambini, in fila indiana. Ci trovavamo nella foresta e pioveva tantissimo, per ripararci abbiamo staccato alcune foglie di un banano e così, messi tutti uno dietro l’altro, sembravamo uno strano millepiedi. Poi, quando siamo arrivati al villaggio – ricordo che sentivo proprio il rumore della pioggia – i bambini sono spariti tutti nelle case dei genitori mentre io sono andata nella capanna di mio nonno. Ho spostato la tenda di giraffa per entrare e proprio con questo gesto di spostare la tenda … ho avuto una sensazione fisica, forte, come se significasse finalmente togliere il sipario dell’ignoranza, pronta a immergermi nella vera conoscenza. Dopo questo episodio ho iniziato a scrivere.

Il mondo di colori, odori e suoni da lei evocato mediante la scrittura trasportano il lettore in un universo visceralmente legato alla natura e a tradizioni lontane e sconosciute. È un’Africa lontanissima dal ritmo martellante dei clacson e del frastuono urbano che caratterizzano città come Roma, il luogo da lei scelto per scrivere il suo romanzo. Come è riuscita a far convivere questi due mondi nel suo modo di vedere e sentire? E soprattutto – riflettendo anche sull’evidente contrasto che emerge alla fine del suo romanzo quando la protagonista è costretta a lasciare la sua tribù per andare a vivere in una città – come è riuscita a conservare intatto il legame con il suo passato?

È difficile: è una battaglia. Hai presente l’esplosione di una supernova? Uguale. Perché qui parte tutto da un’altra realtà, il mondo che io vivo è fantasia, non ha nessun significato o valore – a meno che non si incontri qualcuno che ha una certa sensibilità, ma è raro. Faccio fatica a far convivere questi due mondi. Ho sempre bisogno di tornare davanti al mio altare animista per ritrovare il mio equilibrio, altrimenti rischio di impazzire.

Ne La luna che mi seguiva si assiste alla rivelazione del “prescelto”, il futuro erede del Morikè, lo sciamano. Proprio come vuole la tradizione, tutti gli abitanti del villaggio si aspettano che venga scelto un maschio, ma – come ben presto scopre il lettore – l’eletta stavolta sarà una bambina. A partire dallo sconcerto generale per l’evento inaspettato fino ad arrivare ad alcune parti del romanzo in cui si nota l’ostilità degli abitanti verso la protagonista e si sottolinea il fatto che non sarebbe accaduto se fosse stata un maschio, è evidente la contrapposizione uomo-donna. Anche riferendosi alle vicende del romanzo, potrebbe parlarci della condizione della donna e della posizione che essa occupa nella società della sua terra di origine?

La donna è sottomessa all’uomo, ma lo fa con felicità: è un’accettazione totale. Io vedevo mia madre felice, che anzi canticchiava mentre dava la parte migliore del cibo a mio padre. E la donna è tutto nella tribù: è colei che lavora nei campi, va a prendere l’acqua, fa partorire, cura, così come Numu Mouso nel romanzo è quella che fa il taglio del clitoride. Non so se tutto ciò è rispettato, più che altro è dato per scontato.

Il mondo di Saduwa, la protagonista del romanzo, è un mondo intimamente connesso con la natura, pervaso da una cultura che attribuisce un grande valore simbolico a cose e ad avvenimenti che al lettore potrebbero sembrare minimi e trascurabili. Una delle immagini più forti è quella della “luna”, sempre presente nelle vicende e compagna costante che guida Saduwa. Essendo quello del satellite terrestre un elemento ricorrente anche nella cultura Occidentale, qual è il significato che ha nella sua tradizione e secondo quale tipo di rapporto l’uomo vi è legato? È una luna sempre benefica come nel romanzo oppure ha dei lati malvagi?

In questo caso, più che nella tradizione ne parlerei nello specifico: la luna è l’alleato dello sciamano. Come dicevo prima, gli sciamani hanno degli alleati nella natura: possono essere animali, fiumi e può essere anche la luna. Ennio Cavalli prima leggeva il passo del romanzo in cui viene tagliato l’albero di cui è fatto il trono del padre di Saduwa: doveva essere l’albero più vecchio di tutti, quello che all’alba – quando tutte le anime degli alberi si svegliano insieme al villaggio – lo sciamano riconosceva come più antico. C’è questa alleanza tra lo sciamano e la natura. Suppongo poi che la luna possa essere anche malvagia, una sorta di “dark side of the moon”, ma io non ne ho mai conosciuto questo lato.

È possibile accostare il percorso conoscitivo e di crescita della protagonista al suo personale percorso umano?

Mentre scrivevo sono come “regredita”, intendo positivamente, nel senso che ero proprio con Saduwa, mi trovavo dentro di lei. Ricordo che un mio amico giornalista de “L’Epresso” mi chiamò e mi disse: «Aminata in che epoca sei?». Perché quando scrivo sono davvero lì, nei luoghi di cui racconto. Quando scrivevo della foresta, degli animali, poi uscivo di casa e mi sentivo spaesata nel vedere un tram. Era come se fossi stata proiettata dal mondo di Saduwa direttamente a Roma, nel suo traffico, nel suo rumore, con il chiasso, i tram, gli autobus e solo persone bianche intorno a me. Non so poi se ho fatto un’evoluzione, ma ti posso dire che ho accompagnato Saduwa, ho camminato assieme a lei.

INTERVISTA – La musica per costruire le medaglie e le cicatrici della vita: Niccolò Fabi si racconta a Musicultura XXVI

Mentre Niccolò Fabi, ospite di Musicultura XXVI, si sta esibendo sul palco dell’Arena Sferisterio, accompagnato dal GnuQuartet, inizia a piovere. Non è un caso che questo accada proprio quando il cantautore sta intonando i primi versi di Oriente, un titolo che già di per sé fa pensare al caldo, agli odori di una terra lontana e ai colori di tramonti accecanti.

I testi di Fabi sono spesso ricchi di riferimenti al cielo, al volo degli uccelli, all’infinitezza del mare, alle cose della vita che accadono indipendentemente dal volere dell’uomo: la pioggia ha voluto prendersi il suo posto in Arena, ieri sera, per ascoltare le storie di un uomo che ha fatto della musica il timone della sua barca e l’ancora che lo salvato dalle bufere che colpiscono la vita di ognuno. È tornato il sereno con Costruire ed anche questo, forse, non è stato un caso. Ho incontrato Niccolò Fabi subito dopo la sua esibizione e gli ho fatto qualche domanda per tentare di conoscere più a fondo la carriera di un artista come pochi e la storia di un uomo come tanti.

Hai esordito nel 1997, al Festival di Sanremo, con il brano Capelli. Sono passati quasi vent’anni e, nel frattempo, l’ambiente musicale italiano ha subìto delle trasformazioni. Riusciresti ad individuare una direzione verso cui il cantautorato si sta muovendo?  

È complicato perché, rispetto al 1997, è venuto meno un interlocutore fondamentale, ovvero la discografia intesa come la figura dell’editore, di chi investe, di chi è alla ricerca di musicisti talentuosi e cerca di aiutarli. In questo caso la crisi del disco, o meglio la scomparsa del disco, ha fatto sì che quel tipo di editore non ci sia più e quindi i cantautori attuali non abbiano più un alleato. La televisione non è un alleato del cantautorato, perché il cantautorato non è televisivo. E non è, questa, solo una questione commerciale, perché se guardiamo alle classifiche di dischi degli ultimi venti anni, troviamo ancora grandi cantautori: da Renato Zero a Claudio Baglioni, Da Vasco Rossi a Ligabue, o Jovanotti. Questa è la prova che non è vero che il cantautorato non si vende bene, ma semplicemente non rientra nel concetto di “televisivo”. Rispetto a qualche tempo fa, la strada che i cantautori di oggi si trovano a dover percorrere è decisamente più complicata. Musicultura rappresenta una sorta di “via di mezzo” che si è evoluta allargandosi, in varie occasioni, ad autori non solo letterari ed aulici. L’allora “Premio Recanati” aveva un certo tipo di imprinting: raccoglieva sul palco coloro che la discografia non voleva, ovvero coloro che avevano anche una forte pesantezza autorale e non erano pop – e ricordiamoci che “pop” non è una parolaccia, ma qualcosa che significa anche fruibilità, cantabilità e comunicazione. Poi Musicultura, sia per poter essere il più fruibile possibile che per la ricerca di qualità, si è voluta aprire ad un panorama più ampio, un panorama che comprende cose molto più contemporanee.

Da Capelli a Costruire sono passati quasi dieci anni. Come è cambiato Niccolò Fabi in tutto questo tempo?

Sì, è passato quasi un decennio, e da Costruire ad oggi altri nove anni: un’infinità di tempo! Inevitabilmente, come accade ad ognuno di noi, la vita lascia cicatrici e medaglie. Artisticamente parlando, lo scorrere del tempo è stato per me qualcosa di positivo perché, crescendo, mi sono reso conto di avere un’innata predisposizione a raccontare l’invecchiamento. Ed anche le cicatrici. Questo, dal punto di vista professionale, mi ha aiutato ad invecchiare meglio. Penso ad alcuni musicisti, ad esempio a quelli che fanno punk ed hanno un certo tipo di chiave stilistica, che hanno una dote specifica, prettamente giovanile, per raccontare un determinato tipo di ribellione, insubordinazione e rivoluzione; poi, con lo scorrere del tempo, questi musicisti non sono più in grado di esprimere e raccontare artisticamente la maturità. Al contrario, io ho avuto la fortuna di sentirmi molto più “a fuoco” adesso che a venticinque anni, perché è probabilmente ora – ed in maniera più matura – che riesco a tirare fuori al meglio le mie caratteristiche.

Hai parlato di cicatrici. Come tutti, anche tu sei stato costretto a ricucire le ferite che la vita a volte procura. La perdita di qualcuno lascia sempre dei segni, ma tu hai avuto la forza di tirarne fuori il meglio e di iniziare un cammino – anche artistico – decisamente più consapevole. 

Dal 2010 in poi, la mia vita professionale ha subìto un salto di qualità incredibile. Detto così, questo può sembrare assurdo, una considerazione quasi ingiustificata. Non voglio assolutamente limitare la portata di quell’evento a ciò che sto dicendo, ma ho avuto senza dubbio più forza e più determinazione nel seguire le cose che mi piacciono ed ho le idee molto più chiare, come capita spesso a chi, da una parte, diventa adulto e, dall’altra, non ha più tempo da perdere dietro a cose futili. In questo senso, ho guadagnato un sacco di anni che avrei altrimenti speso forse male, e quell’esperienza mi ha dato tantissima forza nello scegliere la direzione da prendere per fare ciò che realmente mi interessa. Ed il cambiamento che ho affrontato è stato forse quello che la gente ha percepito: un’emotività diversa. Dopo questo evento, si è generata una sorta di “effetto domino”, come spesso accade in concomitanza di eventi estremamente potenti che generano delle onde altissime che, se indirizzate nel giusto modo, possono convogliare in progetti non autodistruttivi.

Pochi mesi fa hai deciso di intraprendere un’avventura artistica che ti ha portato ad esibirti in piccole cittadine, club e locali. Di cosa sentivi il bisogno, in quel periodo della tua carriera?

Questa è stata una parentesi tra la fine della tournée nei palazzetti ed il concerto all’Arena di Verona, un gioco meraviglioso durato circa un mese in piccoli locali e centri cittadini. Mi è anche capitato di passare proprio qui vicino, a Fermo e a Castelfidardo, per esibirmi in live di cui avevo dato comunicazione poco prima. Un’esigenza di libertà,  che penso sia la più grande esigenza di tutti: poter decidere di fare quello che si vuole, quando si vuole. Ed anche il bisogno di un contatto più intimo e più vicino con il mio pubblico.

INTERVISTA – Il fenomeno-Oblivion a Musicultura: lo spettacolo è servito

Esilaranti, esplosivi, scherzosi ed ironici sempre e comunque, gli Oblivion, ospiti di Musicultura, hanno portato sul palco de La Controra prima, dello Sferisterio dopo,  uno spettacolo unico nel suo genere, fatto di brani pop rivisitati con l’interpunzione continua di frasi musicali diverse, giochi metateatrali e virtuosistici esercizi di stile.

La storia del quintetto, composto da Graziana Borciani, Davide Calabrese, Francesca Folloni, Lorenzo Scuda e Fabio Vagnarelli, inizia con l’incontro dei suo componenti all’Accademia del Musical di Bologna e prosegue all’insegna di una sperimentazione musicale declinata ogni volta in maniera diversa, tra insoliti mash up di stili differenti – come l’ultima impresa canora del gruppo, che ha fuso insieme Gianni Morandi ed i Queen – , match di improvvisazione teatral-musicale, ricerca dal ritmo veloce della parodia, della gag ispirata ai grandi personaggi e alle opere immortali, con storie “ridotte”  in una manciata di minuti: è il gioco che più piace agli Oblivion, fare la sintesi e scomporre le trame: un “gioco” che nel 2009, con il loro video-clip “I Promessi sposi in 10 minuti”, ha ottenuto oltre tre milioni di visualizzazioni. Nella vita mantengono gli stessi ingredienti che dipingono in palcoscenico: spontaneità, ilarità e leggerezza, che sono anche i fili conduttori di questa intervista.

“Gli Oblivion sono i cinque miracolati dalla banda larga, i cinque punti del governo del cantare, i cinque anelli delle obliviadi, i cinque gradi di separazione fra Tito Schipa e Fabri Fibra, i cinque madrigalisti post-moderni”: già da questa etichetta, con cui siete soliti definirvi, si evince l’eclettismo artistico che vi contraddistingue. Perché “Oblivion”?

“Oblivion” è un acronimo, è l’iniziale dei nostri nomi. Ma è anche un incantesimo di Harry Potter, un’attrazione di Gardaland, un film con Tom Cruise… Stiamo scherzando, non è l’acronimo dei nostri nomi, ma una volta un giornalista ci ha creduto e da lì, ogni volta che ce lo chiedono, riproponiamo questa spiegazione. Lasciamo aperta l’interpretazione di questo “oblìo” con cui abbiamo deciso di chiamare il nostro gruppo, chissà, magari vengono fuori delle cose curiose.

Siete un quintetto che riunisce insieme cinque personalità molto diverse tra loro. Come riuscite ad armonizzarvi e ad offrire spettacoli dove siete perfettamente sincronizzati ed in sintonia tra di voi?

Per sopravvivere. Per anni abbiamo fatto Musical per amore del Musical e per mangiare col Musical. Sognavamo di morire per amore e nel frattempo stavamo “morendo di fame”. È una vita dura quella dell’artista, vediamo colleghi che non lavorano e si scoraggiano: quella che ci lega è una motivazione forte, dobbiamo per forza di cose essere il più uniti possibile. Ma abbiamo anche altri “piani B” – scherzano sorridendo, ndr – infatti c’è chi ha iniziato a coltivare pomodori in balcone, chi si cimenta anche in cucina, insomma, prepariamo alternative di sussistenza, in caso di crisi.

Quali sono i modelli cui vi ispirate nella creazione delle vostre caleidoscopiche performances?

I nostri maestri? Quartetto Cetra, Rodolfo de Angelis, Giorgio Gaber, i Monty Python. Non li abbiamo mai incontrati, ma sicuramente avrebbero negato di conoscerci. Non abbiamo inventato nulla, facciamo quello che faceva, ad esempio, il Quartetto Cetra negli anni ’50. Noi “rimettiamo alla finestra” le loro canzoni, solo con ritmi e tempi molto diversi da quelli della loro epoca, cerchiamo di prendere degli spunti che poi attualizziamo. Come facciamo anche con le storie dei grandi classici, da Dante a Manzoni a Shakespeare – del quale abbiamo di recente riproposto il nostro “Othello, la H è muta” – per divertire attraverso la parodia, per “togliere un po’ di polvere”. Altrimenti, tolti gli appassionati di cultura classica, resterebbero solo reliquie lontane nel tempo: con le nostre contaminazioni di comicità, musica e trash, li rendiamo di nuovo “pop”, evitando un approccio troppo accademico a questo tipo di opere.

Siete stati protagonisti con i vostri spettacoli comico-teatral-musicali anche in programmi tv di successo come “Zelig” e “Parla con me”. Cosa pensate dei Talent Show che, ad oggi, sembrano essere un passaggio obbligato per l’auto promozione di un artista?

Siamo la dimostrazione di quanto forte possa essere il potere della rete e dei media: un video caricato su Youtube ci ha consacrato al successo permettendoci di farci conoscere dal “grande pubblico”. È un’ottima vetrina. Certo ogni artista deve avere una precisa coscienza di sé e del proprio lavoro, altrimenti rischia di uscirne con le ossa rotte e bruciarsi subito.

C’è qualche nuovo progetto che bolle nel vostro smisurato calderone creativo?

Il periodo estivo è quello più produttivo, dove si scrive molto e ci si prepara per la nuova stagione di spettacoli che si schiuderà in autunno. Abbiamo in serbo un progetto, che prenderà il via ad ottobre, che sarà un vero e proprio “Human juke box”. Ovvero sia, durante le nostre esibizioni raccoglieremo spunti e suggerimenti di brani musicali direttamente dal pubblico. Così sarà un tipo di spettacolo diverso ogni sera, con materiali nuovi e sempre più attuali: una sorta di laboratorio creativo, potenzialmente infinito. Quella che non cambierà sarà invece la nostra filosofia di sempre: divertirci e non prenderci mai troppo sul serio.

INTERVISTA – Ezio Guaitamacchi: la Beat Generation a La Controra di Musicultura 2015

Ezio Guaitamacchi, giornalista e critico musicale, a La Controra ha abbandonato la penna e preso la chitarra: accompagnato dalla potentissima voce di Brunella Boschetti, ha condotto il pubblico degli Antichi Forni in un viaggio negli anni Sessanta e Settanta. Servendosi di Bob Dylan come del Virgilio dantesco, Guaitamacchi ha attraversato l’inferno e il paradiso di un decennio in cui i grandi miti del rock, quelli che ancora oggi la radio continua a passare, hanno messo le radici nella terra della musica.

“Dylan & The Beats” è un progetto che, attraverso la commistione di musica e parole, vuole raccontare le vite dei grandi miti del rock che hanno fatto la storia. Come è nata l’idea e come si è creata la collaborazione artistica con Brunella Boscheti?

Non mi ricordo esattamente l’anno! Da dodici anni sono direttore di un Master in Giornalismo e Critica musicale, ma già precedentemente tenevo dei corsi sulla storia del rock in una scuola: entrai in aula per la lezione e trovai Brunella che cantava al pianoforte; dopo poco tempo, mi portò una sua cassetta: la ascoltai e, a dir la verità, la giudicai piuttosto deludente. Nel frattempo, avevo iniziato a lavorare ad un libro che mi sarebbe piaciuto promuovere con una modalità di presentazione diversa dal solito, attraverso la rivisitazione di grandi classici del rock in un’altra chiave di lettura: presi le mie chitarre e mi accorsi che avevo bisogno di una voce femminile. Dopo un paio d’anni Brunella è diventata mia partner artistica e continua ancora ad esserlo, ormai da molto tempo.

Quale crede che sia, se c’è, la differenza fondamentale tra i ragazzi di oggi e coloro che invece sono stati giovani nel decennio Sessanta-Settanta?

Sì, c’è una differenza che forse in pochi sottolineano: la young generation di oggi è molto “comoda”, nel senso che, essendoci molto più benessere, si è di conseguenza spostata più in là l’età critica in cui ognuno deve iniziare a cavarsela da solo. È questa la vera differenza. Poi, ovviamente, anche tutto il resto è cambiato, a partire dal contesto storico : per quanto riguarda il mondo dell’arte e della musica, gli anni dei Sessanta e Settanta rimangono irripetibili, ma coloro che li hanno vissuti non se ne rendevano conto. Io, ad esempio, ho vissuto i cosiddetti “anni di piombo”: frequentavo la Bocconi e mi ricordo delle bombe molotov, delle gambizzazioni, dell’esercito in strada; tutta l’ideologizzazione che aveva caratterizzato il decennio precedente si tramutò in qualcosa di difficile da vivere. Rimpiango quegli anni per la mia giovinezza, ma non per quello che ho vissuto. Spostando il discorso sulla musica, gli artisti di quarant’anni fa avevano molte meno possibilità rispetto a quelli di oggi. Oggi, ognuno di noi potrebbe scaricarsi un programma sul proprio pc ed iniziare a fare musica; i social network, in questo senso, giocano un ruolo fondamentale, perché permettono a chiunque di esprimersi liberamente. Negli anni Sessanta, produrre un album costava, e costava molto; ora tutto è stato reso più facile, con il risultato che si è persa la percezione di quello che è la professionalità, anche in campo artistico.

Se dovesse sceglierne solo uno, quale sarebbe il disco da cui, secondo lei, nessun buon ascoltatore di rock dovrebbe prescindere?

Parlare di un solo disco mi sembra troppo riduttivo. È come se mi chiedessero di scegliere un quadro in tutto il Rinascimento: impossibile. Comunque, è convinzione di molti che Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles sia il disco più importante della storia del rock.

A questo punto, allora, le chiedo: Beatles o Rolling Stones?

Questo dualismo fu creato dal manager dei Rolling Stones, ed io risponderei citando Gianni Morandi: amo sia i Beatles che i Rolling Stones, perché sono le due facce della stessa medaglia. Artisticamente parlando, sono cose molto diverse tra loro: i Beatles sono stati un caso più unico che raro, i Rolling Stones hanno fatto della commistione tra blues e rock la loro specializzazione; i primi sono universali, i secondi eccitano.

Da critico musicale e musicista, qual è il giudizio che dà a Musicultura?

Musicultura è un piccolo miracolo, ma dovrebbe essere un esempio da imitare per tutto il mondo della musica e dell’arte. È uno spazio non per i talenti effimeri, ma per chi fa della musica un’arte a prescindere dall’aspetto commerciale. Dovrebbero esistere dieci, cento, mille Musicultura.

INTERVISTA – A La Controra di Musicultura Stefano Zecchi presenta il suo ultimo romanzo, “Rose bianche a Fiume”

Nel dopoguerra molti ragazzi vedono nell’ideologia comunista un progetto di pace: ci sono i sognatori, i fanatici e poi c’è Gabriele, la cui “adesione al comunismo non aveva niente a che vedere  con Marx e Lenin”, protagonista dell’ultimo romanzo di Stefano Zecchi, Rose bianche a Fiume, presentato martedì 15 giugno a Palazzo Conventati in occasione de La Controra di Musicultura.

Lo scrittore veneziano racconta le vicende che gli italiani hanno dovuto affrontare dopo la II Guerra Mondiale; soprattutto intende ripercorre in maniera realistica le storie, gli umori, lo sconforto ma anche le speranze di chi è tornato, dopo anni di esilio, a Fiume.

Chi è Gabriele e perché viene più volte soprannominato “il bravo ragazzo”?

Gabriele è una figura utopica. È un giovane che in un certo periodo della nostra storia ha pensato che il comunismo fosse la realizzazione dei sogni romantici di libertà, di progresso, di bene universale. Il “bravo ragazzo” è chi antepone il sogno alla realtà. Gabriele si sveglierà drammaticamente davanti alla visione di un comunismo crudo che vuole realizzare un progetto egemone. Paga un prezzo alto che non è soltanto legato ad un errore, ma ad un’illusione, alla concezione del mondo che lo ha tradito e per questo lo travolge.

Nel suo romanzo si evince una cura dettagliata nella descrizione dei territori. Come mai questa scelta?

Pensavo fosse uno dei modi migliori per far sì che il lettore entrasse nell’atmosfera che si stava vivendo nel dopoguerra. Gli spazi sono vissuti, le case e le strade rappresentano storie. I paesaggi servono a capire quello che è stato, in un momento in cui tante tracce del passato sono state cancellate. Descrivo ambienti credibili e questo viene notato da molti lettori.

Come evolve Fiume agli occhi di Gabriele?

Evolve negativamente e si spersonalizza. Lo si nota negli edifici popolari intesi come grandi casermoni dislocati in paesi satelliti dell’Unione Sovietica. Fiume tratteneva il ricordo di Venezia; era una realtà basata su strette amicizie, si percepiva la vicinanze alla vita dei campi. Gabriele, d’altra parte, non perde il senso di amore per la città di Fiume, per le sue colline, il mare. Osservandola, percepisce le verità di un ambiente distrutto dall’edilizia di stampo sovietico.

Gabriele  sfida il passato: è riuscito a capire chi sono i vinti e chi i vincitori?

Io sono convinto che Gabriele abbia capito molto bene chi siano i vinti e chi i vincitori. Dice: “In fondo perché soffrire per colpa di Tito e del suo comunismo? Sì, la mia vita è stata segnata per sempre ma nello stesso tempo ho cercato di oltrepassarla”. Ha fatto i conti con il passato e nello stesso tempo è stato condannato all’esilio come tanti italiani, abbandonando la terra della sua adolescenza e della sua formazione più intensa.

La musica è una forma d’arte molto coraggiosa per raccontare la cultura ed il passato del nostro Paese. C’è una canzone a cui è legato e che le rievoca immagini della nostra storia?

Io sono convinto che ci sono due fasi della canzone popolare italiana: una tipologia musicale termina il 31 dicembre 1969. È la musica degli anni ’60, semplice nella sua capacità di coinvolgimento emotivo; mi riferisco alle canzoni di Gino Paoli, Luigi Tenco, Ornella Vanoni. Successivamente inizia una nuova stagione: si intravede una canzone d’autore più colta e presuntuosa, quella dei cantautori che si dividono, a mio avviso, in grandi artisti come Lucio Battisti, Lucio Dalla, Franco Battiato, Fabrizio De Andrè, e in modesti. Poi c’è la canzone confusa dei nostri giorni, in cui persiste un aspetto melodico.