INTERVISTA – Teresa De Sio: il reading musicale de “L’Attentissima” a La Controra di Musicultura

Non ha bisogno di presentazioni Teresa De Sio, cantautrice partenopea da tempo membro del Comitato artistico di garanzia di Musicultura. Ad accompagnarla nel reading musicale del suo secondo romanzo, L’Attentissima, svoltosi nell’Aula magna della facoltà di Giurisprudenza, è Valerio Corzani, giornalista e conduttore radiofonico.

La De Sio, attraverso la lettura di alcuni passi salienti del suo libro, trasporta il pubblico nella tormentosa storia di formazione dei due protagonisti, Karmen e Domenico. I due personaggi vengono magistralmente interpretati dall’autrice, che si aggiudica un lungo e caloroso applauso da parte dei presenti.

Il libro è strutturato come un romanzo di formazione, o meglio di “trasformazione”, dove la protagonista, Karmen, intraprende una lunga ricerca su se stessa per scoprire la propria identità. Da dove viene l’ispirazione per questo personaggio?

“Sono carne e fiato e tacchi alti, e speranza, come tutti. Io sono ciò che ho voluto”. Vorrei partire proprio da questa sorta di dichiarazione di intenti che fa il personaggio di Karmen per raccontare L’Attentissima. La ricerca della identità, per ognuno di noi, è un viaggio fatto di scelte continue e prese di coscienza, rinunce e conquiste. Inevitabilmente tutto ciò finisce per trasformarci nel profondo. Dunque ho sempre ritenuto che la conquista della nostra identità coincida sempre con una trasformazione in qualcosa di diverso da ciò che si era in partenza.

Sulla sua pagina Facebook scrive che “Mettere in scena un reading da un romanzo come l’Attentissima si sta rivelando un affare tanto affascinante quanto complesso. Una cosa è scrivere pagine “toste” affidando gli esiti al muto foglio di word, un’altra sarà pronunciare quelle parole, evocare quelle situazioni, dire il lessico di quei personaggi davanti ad un pubblico…”. Che cosa vorrebbe comunicare agli spettatori di mercoledì 17 giugno?

Nel reading tratto dal mio secondo libro, sarò accompagnata dal musicista, giornalista e conduttore radiofonico di Radio3 Valerio Corzani. Musica e parole raccontano una vicenda doppia dai toni noir, in cui i corpi e le anime si realizzano nella pienezza delle proprie passioni. “L’Attentissima” è la storia di un viaggio alla ricerca della libertà. Scrivere un libro non è come scrivere una canzone e poi farlo diventare un reading è una cosa ancora diversa. Il mio primo romanzo è stato un’avventura, un precipitare senza essere sicuri che qualcuno ti avrebbe salvato, magari proprio all’ultimo minuto. Ma con il secondo non ci sarebbero state scuse. E’ una sfida continua.

La sua produzione artistica e musicale si focalizza maggiormente su scenari e tradizioni partenopee. Anche nel suo ultimo libro Napoli è presente, ma questa volta è affiancata da una Roma decadente e dai toni noir. Quali sono i rapporti che lei ha con queste due città e, in particolare, i rapporti che i personaggi del suo libro hanno con esse?

Non necessariamente, ho viaggiato molto e ogni esperienza mi rimane addosso profondamente, come ad esempio la mia amicizia con Soldini che ha dato vita a “Da Napoli a Bahia”. Certo a Napoli sono nata e a Roma ci sono cresciuta. Sono stata in Africa, in Messico, a New York, in Estremo Oriente. Tutto mi influenza, tutto rimane dentro di me. Delle volte è un amore profondo, delle altre è un sentimento più complesso, di amore e di odio. Nel romanzo la parte ambientata a Somma Vesuviana mi ha dato la possibilità di far parlare i miei personaggi in una lingua ,il mio dialetto, che conosco bene, e anche farmi rivivere il periodo della mia adolescenza a Cava dei Tirreni. La lingua parlata dai personaggi è importante. Roma, dove si svolge tutta la seconda parte del racconto, è la città dove vivo e che amo molto. I luoghi i colori e i sentimenti legati all’ambientazione sono anche i miei luoghi.

La sua collaborazione con Musicultura si rinnova anche per il 2015: come, in tanti anni, ha visto maturare il festival che la vede tra i membri del Comitato artistico e quale il contributo che una manifestazione siffatta può apportare al panorama della musica d’autore in Italia?

In Italia le manifestazioni musicali sono troppo spesso senza senso, soprattutto da quando i talent sono entrati prepotentemente nelle vite dei musicisti. Io sono molto affezionata a Musicultura e mi sembra davvero che sia l’unico modo di dare una chance a un giovane artista. Io credo nel “brigantaggio intellettuale”, che ci salverà. Non vedo altra vera barbarie se non quella di coloro che ci hanno governato e ci governano. La nostra moderna barbarie. Ci vorrebbero menti e intelligenze forti, pulite e non corruttibili. Si parla molto di corrotti nella politica e nell’imprenditoria ma non si dice mai niente di quelli che appartengono alle privilegiate caste di coloro che lavorano alla formazione dell’immaginario del nostro Paese. Pensatori, giornalisti, cantanti, scrittori. Per me c’è una soluzione: trasgredire. Sempre.

INTERVISTA – Franco La Torre taglia il nastro de La Controra e ci racconta suo padre con “Sulle ginocchia”

Franco La Torre prima che storico, ambientalista, pacifista e cooperante internazionale, è il figlio di Pio La Torre, assassinato dalla mafia nel 1982, quando era ormai imminente l’approvazione della proposta di legge da lui avanzata, che introduceva nel Codice Penale il reato di associazione mafiosa e la confisca dei beni alla criminalità organizzata. Ospite di Musicultura nella giornata d’apertura de La Controra, La Torre presenta il suo ultimo libro, Sulle ginocchia, “la vita di mio padre dal mio punto di vista”.

Tanti i volti assorti nel ricordo di quei giorni concitati degli anni ’80, che l’autore dipinge con lucidità e partecipazione in una conversazione fiume con Valerio Calzolaio – docente dell’Università di Macerata, attento testimone della storia contemporanea, nonché suo “grande amico”. Sono le note di “Povera Patria”, di Franco Battiato, interpretata dalla voce profonda di Alessandra Rogante, a far immergere e poi riemergere, in apertura e a conclusione dell’incontro, il pubblico nell’atmosfera intima e toccante di un racconto familiare.

Se Musicultura è musica ed è cultura, Musicultura è anche Libertà. Questa è, con ogni probabilità, la ragione per cui la presentazione del suo libro trova in questa manifestazione uno spazio di calorosa accoglienza. Riconosce nella concezione, di matrice illuminista, secondo la quale l’educazione e il sapere liberano e affrancano l’uomo dalla schiavitù, mentale e non, una delle idee guida anche dell’attività di suo padre – che al valore della libertà ha dedicato e sacrificato l’intera esistenza?

Mio padre, su sollecitazione di sua madre, analfabeta, realizza che lo studio e, di conseguenza, la cultura sono l’unico strumento per affrancarsi dalla condizione di bracciante povero e ribellarsi ad un destino miserabile. L’unico mezzo di avanzamento sociale in una società dai molti tratti ancora arcaica. Chiede e ottiene, quindi, di poter andare a scuola, quando ancora non aveva compiuto 5 anni. Questo afflato risponde la scelta del mio nome: Franco, uomo libero.

Ha lei stesso dedicato gran parte della sua attività alla lotta per la legalità, è attualmente presidente di FLARE – rete internazionale che raccoglie circa quaranta organizzazioni impegnate nel contrasto al crimine organizzato – e da anni è membro della direzione di Libera – associazione volta alla sensibilizzazione, anche attraverso la riconversione di beni confiscati alla mafia e alla promozione di attività produttive in quei territori. È proprio nell’ambito di una manifestazione di Libera che, parlando con Nando Dalla Chiesa, figlio di Carlo Alberto Dalla Chiesa, altra vittima di mafia che tutti ricordano, ha preso coraggio per scrivere di suo padre, non è vero?

Proprio così. L’autunno scorso ci trovavamo a Villa Vecchia, un complesso alberghiero, confiscato alla ‘Ndrangheta, a Monte Porzio Catone, sui Castelli romani, per una delle sessioni di formazione, che Libera organizza periodicamente. Nando mi chiede: “è mai possibile che tu non abbia scritto nulla su tuo padre?” Ed io: “veramente, ci ho provato più volte, senza venirne a capo”. Dai, insiste Nando, devi riuscirci. Ci ho riprovato e, questa volta, l’ho scritto.

Nell’approccio al racconto della vita di suo padre ha assunto, come era inevitabile, un duplice punto di vista, da una parte quello dello storico che, con scientifica esattezza, ricostruisce l’avvicendarsi degli eventi, dall’altra quella di figlio, che ha visto, ha vissuto in prima persona quegli eventi e ne è stato segnato per sempre. Come è riuscito a condensare in poche centinaia di pagine questa doppia lettura, che, per quanto ardua e complessa, è forse l’unica, o quella su tutte privilegiata, per conservarne la memoria?

Ero consapevole che, sia una biografia che un saggio politico su mio padre, non avrebbero aggiunto nulla di particolare a quanto già pubblicato; avendo “conosciuto” mio padre quando aveva, ormai, 40 anni. Ho pensato che il duplice piano di lettura, dove si sovrappongono l’angolo familiare e quello composta dalla sua storia e dal suo impegno, fosse la chiave per raccontare mio padre dal mio punta di vista.

L’assassinio di suo padre è stato solo il primo di una tragica sequela di delitti, che tutt’oggi non conosce requie, l’ultimo risale a pochi giorni fa, l’avvocato Piccolino è stato freddato con un colpo di pistola nel suo ufficio, a Formia. Il sacrificio di un uomo, di tanti uomini, non è servito dunque a cambiare le cose? E le cose si possono davvero cambiare o è l’intero sistema ad essere colluso e mafioso?

Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80, la classe dirigente siciliana viene sterminata: capo del governo, quello dell’opposizione, massimo rappresentante del governo centrale nell’isola, magistrati, dirigenti delle forze dell’ordine, giornalisti. Ciò avviene perché quel grumo d’interessi, quel fenomeno di classi dirigenti – come mio padre definiva la mafia – si oppose, con successo, disgraziatamente, al processo di rinnovamento che si stava avviando in Sicilia, per ripartire, dopo il rapimento e l’uccisione di Moro, che aveva bloccato il tentativo analogo a livello nazionale. Quella tragica stagione, comunque, ha prodotto la legge Rognoni-La Torre – con l’introduzione del reato di mafia, le indagini patrimoniali e la confisca. Poi sono venute la Procura Nazionale Antimafia e gli altri strumenti, che fanno dell’Italia il paese all’avanguardia nel contrasto alle mafie. La battaglia tra progresso – sostenuto dalle forze democratiche – e reazione – sostenuta dal sistema di potere politico-mafioso – è un tratto della storia dell’umanità, la dialettica che ne sottende il percorso.

Musicultura è anche un’occasione di arrivare, attraverso la musica e le parole, al cuore dei giovani. Se potesse lanciare loro un messaggio, quale sarebbe?

Le giovani generazioni hanno ricevuto dai loro genitori meno di quanto questi avevano ereditato a loro volta. Si trovano, quindi, nella condizione di dover ricostruire e rafforzare il quadro dei diritti e delle conquiste sociali. Questa condizione fa di loro i nuovi partigiani di una lotta non violenta per la democrazie e la libertà.

INTERVISTA – Sandro Veronesi a La Controra di Musicultura con “Non dirlo. Il Vangelo di Marco”

Raccontare di Gesù non è un’impresa facile; se a farlo è Sandro Veronesi, però, ci si trova di fronte a qualcosa di innovativo, di fuori dal comune, che a tratti rimanda alla poesia e alla musica di Leonard Cohen, al genio di  Quentin Tarantino e all’arte di Nick Cave. Non dirlo. Il Vangelo di Marco è l’ultimo romanzo dell’autore di Terre rare, Gli sfiorati, XY.

Lunedì 15 giugno, in occasione della giornata di apertura degli appuntamenti de La Controra, lo scrittore pratese, vincitore di numerosi riconoscimenti tra i quali il Premio Strega nel 2006 con Caos calmo, oltre ad aver presentato il suo libro nell’intimità di un incontro coinvolgente,  ha sottolineato il suo impegno a Musicultura in qualità di membro del Comitato artistico di Garanzia:  “Quando mi trovo a giudicare le canzoni mi piace sentire il parere dei miei figli: è un lavoro d’équipe ormai. Ho imparato che ci sono quattro o cinque brani che preferisco ma la mia favorita non vince mai”. Ha poi ribadito la sua stima nei confronti del Festival, affermando: “A Musicultura è possibile notare una vasta gamma di esperienze musicali che vanno ben oltre il mero cantautorato. Per me è un piacere avere a che fare con tanti talenti, perché gli artisti che decidono di partecipare alla manifestazione non sono mai dilettanti allo sbaraglio, principianti, ma musicisti già conosciuti e che a Musicultura vengono consacrati”.

“Caos calmo”, “Terre rare” e molti dei suoi romanzi hanno in comune la centralità dell’uomo e la sua capacità di capovolgere la realtà. L’uomo, in fin dei conti, è un eroe che giorno dopo giorno fa delle scelte che condizionano persone, cose, eventi.  Perché non ci accorgiamo più di questo? Nessuna delle nostre potenzialità è in grado di stupirci: qual è il motivo?

Perché, tra le tante ragioni, abbiamo smesso di cercare il valore simbolico degli eventi, e ci siamo consegnati al loro arido significato concreto. La concretezza è il problema. Stiamo morendo di concretezza.

A proposito di uomini, il protagonista del suo ultimo romanzo, “Non dirlo. Il Vangelo di Marco”, è Gesù. Da ateo si sarà interrogato più volte su Cristo come figura sacra e come uomo rivoluzionario. È riuscito a darsi una risposta?

Ateo è un po’ troppo impegnativo, per me. Direi meglio “non credente”. E comunque ciò su cui mi sono interrogato e mi interrogo tuttora non è Cristo ma il racconto che di lui viene fatto. Del resto, sono un narratore, il racconto è la mia religione, e attraverso questa mi avvicino a tutto ciò che altri considerano sacro. Cristo è una figura grandiosa, di un’originalità ancora oggi insuperata, e sono i racconti che sono stati fatti di lui a renderlo tale. I Vangeli, innanzitutto. È, così com’è raccontato, una figura imprescindibile. Che poi su di essa poggi un’intera religione, è un fatto che ai miei occhi conferma la sua straordinaria consistenza narrativa.

Il Vangelo di Marco spesso è sottovalutato. Perché rivalutarlo? Perché renderlo moderno?

Perché oggi sappiamo che è stato il primo Vangelo, innanzitutto, e dunque sono stati gli altri a nutrirsene – ma questo è stato scoperto abbastanza di recente, grazie al famoso frammento 7Q5. E non c’è bisogno di renderlo moderno perché moderno lo è già, in un modo francamente sorprendente, dato che sembra concepito e composto con la mentalità che oggi, ma non certo 2000 anni fa, ispira le opere letterarie complesse.

In qualità di membro del Comitato artistico di Garanzia di Musicultura, durante l’ascolto dei brani e prima di esprimere le sue valutazioni su di essi, cos’è che l’attrae maggiormente di una canzone, a primo impatto?

La musica, di regola. Il tono, l’arrangiamento, quello che negli anni ’70 veniva chiamato il “sound”. Quello fa o no vibrare qualcosa dentro di me. E solo dopo che questo qualcosa ha o non ha vibrato, sempre di regola, mi rendo conto del testo. Poi, alla lunga, cioè durante gli ascolti successivi, il testo acquista importanza, sempre di più, tanto che, alla fine, se è deludente, se mi è venuto a noia, ci va di mezzo la canzone tutta e smetto di ascoltarla.

INTERVISTA – Milena Vukotic: il racconto di un’attrice a tutto tondo

A La Controra arriva Milena Vukotic, celebre protagonista del mondo cinematografico, teatrale e televisivo che vanta collaborazioni con alcuni dei più grandi attori e registi. L’eclettica artista, recentemente candidata al David di Donatello, è capace di passare dalla recitazione teatrale e cinematografica ad espressioni artistiche di ogni genere, prima fra le quali la danza, che ha studiato per anni. Prima dell’incontro, tenutosi a Palazzo Conventati, ha rilasciato un’esclusiva intervista a “Sciuscià”, nella quale, con grande gentilezza e garbo, ci ha raccontato le sue esperienze lavorative e di vita.

Musicultura è una manifestazione che arriva a definire il prodotto artistico dei musicisti come qualcosa di profondamente culturale. Pensa che una manifestazione di questo tipo possa aiutare nella ricerca e formazione dei futuri grandi artisti?

Credo che manifestazioni come questa stiano proprio alla base di questo tipo di ricerca. Senza un qualcosa che ci apre delle porte è difficile maturare ed intraprendere la meravigliosa strada dell’arte, in tutte le sue espressioni; è una sfida molto difficile ed impegnativa.

Ha avuto una carriera brillante e molto diversificata. Teatro, cinema, televisione. Fellini, Scola, Zeffirelli, Bolognini, Buñuel, Neri Parenti e tanti altri. E’ passata da grandi produzioni cinematografiche a Serie Tv come Un medico in famiglia. Come e quanto esperienze così distanti aiutano a definire un’artista?

Credo che aiutino moltissimo, perché la varietà evita di farti rimanere dentro una schema, psicologicamente e praticamente. In questo modo si è costretti ad uscirne per cercare altre maschere da indossare dentro noi stessi, e credo che questo possa essere solo positivo. È anche un grande piacere farlo, perché fa parte di un bel gioco che facciamo.

Molti attori preferiscono calarsi in ruoli simili fra loro perché si sentono più sicuri; lei, invece, ha interpretato molte tipologie umane differenti. Qual è il ruolo interpretato che le è rimasto più a cuore?

C’è un personaggio che è stato molto importante per me; l’ho fatto quando ero già adulta e lo rifarei ancora, anche se probabilmente in modo diverso: Alice nel paese delle meraviglie, tratto dall’opera letteraria di Lewis Carrol e adattato per la televisione. Proprio oggi, alla stazione di Roma, ho comprato un libricino su Guido Stagnaro, il regista che ha diretto appunto Il mondo di Alice per la televisione di Milano; era la prima volta che facevamo una trasmissione a colori. Io ero già molto grande, di certo non ero l’Alice di 12 anni che descrive Caroll, ma ritengo sia un personaggio universale che racchiude tutte le possibilità di evasione fantastica.

Può essere assurta come il simbolo di una femminilità delicata, di classe. Una bellezza di straordinaria eleganza, mai volgare in nessun tipo di ruolo. Ora il mondo dello spettacolo porta con sé una carovana di donne provocanti, alcune senza arte né parte. Perché crede ci sia stata questa involuzione?

Non credo ci sia solo quel tipo di donna nel mondo dello spettacolo di oggi. In generale, c’è sicuramente stata una rivoluzione nel campo dell’immagine: viviamo in un periodo in cui si viene continuamente provocati visivamente. La figura della donna è diventata più evidente, sì, ma credo sia solo una moda che, come tutte le altre mode, finirà. In futuro forse tornerà un’immagine femminile più “normale”.

A Federico Fellini la legava una stretta amicizia. Come è stato collaborare e conoscere un così grande regista?

Collaborare con lui, e conoscerlo, è stata una grande fortuna e un grande privilegio. La mia vita, grazie a Fellini, è cambiata: io vivevo e lavoravo a Parigi, avevo un mio percorso già avviato. Sono voluta andare a vivere a Roma, dove abitava mia madre, per tentare di conoscerlo e di lavorare con lui, e ci sono riuscita! Sono stata una privilegiata, in questo senso.Silvia Ruggeri e Francesco Bacci

INTERVISTA a Paola Minaccioni: una mina vagante

Paola Minaccioni è, per sua stessa ammissione, iperattiva. “Non so stare senza lo stress”, ci confessa all’appuntamento A tu per tuorganizzato dal laboratorio La Controra. Ci fidiamo, visti gli impegni in radio, televisione, cinema, teatro e cabaret. Un’artista poliedrica che si presenta subito per come sembra: diretta, simpatica, decisa e piena di energia. Ha le idee chiare sul suo lavoro, sa cosa vuole fare e con chi vorrebbe collaborare. Durante l’incontro delizia una divertita platea con alcuni dei suoi personaggi comici più famosi, mostrando chiaramente la spontaneità e la naturalezza con cui il suo lavoro si crea e sviluppa. Divertente, quindi, ma non solo: Paola Minaccioni è capace di una profondità agrodolce e di venature tragicomiche che si accompagnano alla sua idea di recitazione e al suo credo teatrale sull’importanza dell’approfondimento psicologico del personaggio. Sfumature e varietà si incontrano e danno vita ad un’artista che, semplicemente, riesce in tutto quello che fa e non dovrebbe essere inquadrata e limitata solo alla sfera comica. L’abbiamo intervistata per voi:

La sua esperienza radiofonica diversifica il suo curriculum di attrice da altri. Quanto è riuscita  a riutilizzarla nel suo lavoro televisivo e cinematografico?

Mi ha aiutata molto. Intanto perché in radio non si può fare finta: devi avere qualcosa da dire, dato che vale e vince la parola. Nella mia esperienza come attrice e conduttrice devo dire che questo particolare ha fatto la differenza, anche perché ho avuto la fortuna di partecipare ad alcuni programmi cult: Il Ruggito del coniglio, ad esempio; sono alla prima stagione, lavoro con Antonello Dose e Marco Presta. Ho fatto la stagione invernale compatibilmente con altri impegni, ed è stato molto divertente. Meno divertente è stato alzarsi alle 6, ma certe volte ne vale la pena. E poi Lillo e Greg: sono 10 anni che faccio parte del cast di 610, e quella è una grandissima scuola, perché io, Lillo e Claudio ci conosciamo da molto, quindi arriviamo naturalmente all’improvvisazione, e questa lo rende una palestra meravigliosa. Infatti alcuni personaggi che sono nati o che sono stati perfezionati in radio li ho poi portati al cinema; è tutto un circolo, un bellissimo gioco.

Ferzan Özpetek l’ha scelta come interprete di molti dei suoi film. Nell’ultimo, Allacciate le cinture, si affronta un tema piuttosto scomodo: quello del cancro. A riguardo ha dichiarato: “La mia Egle riesce a far ridere nel dramma della malattia”. Quanto pensa sia importante l’affrontare con ironia, a livello cinematografico, temi come questo?

Io penso che la vita sia una tragedia di cui bisogna imparare a ridere e che nei momenti tragici l’ironia aiuti: vivere i momenti di crisi generale con il giusto e sano distacco aiuta. Quindi sì, sarebbe meraviglioso poter parlare di temi presenti nella vita vera, come la sofferenza, il dolore e la malattia in modo ironico, attraverso i grandi mezzi di comunicazione. È un obiettivo difficilissimo da raggiungere; i più “grandi” ci sono riusciti, non solo nel cinema, ma in tutte le arti, attraverso il talento.

Lei non è solo attrice, ma anche comica. Un mestiere a tratti sottovalutato, ma molto complesso. Oltre alla sua naturale predisposizione, quali sono le cose che l’aiutano ad affrontare le sue esibizioni? Ha mai avuto paura di non risultare divertente?

Io non distinguo tanto il mezzo comico dal resto, perché sia la comicità che la recitazione sono cose che nascono dal corpo e dalla testa; sei sempre la stessa persona, in entrambi gli ambiti. Mi è capitato spesso di interpretare dei ruoli drammatici a teatro. Nell’ultimo film di Ferzan Özpetek, ho avuto l’occasione di cimentarmi in un ruolo tragicomico, finalmente, e spero di avere l’occasione di farne altri, perché il tragico e il comico, per me, sono indissolubilmente legati. Per quanto riguarda la paura di non risultare divertente, adesso che ho un po’ di esperienza, posso dire che il dubbio può nascere nei posti in cui c’è un pubblico che ti conosce poco o che ha un altro tipo di cultura. Col tempo, però, ho capito una cosa: se ti diverti, gli spettatori si divertono. Probabilmente ci saranno delle piazze in cui rideranno di più, altre in cui rideranno di meno; alcune che dimostreranno l’apprezzamento in modo diverso, altre ancora che magari staranno in silenzio per tutto lo spettacolo ma, alla fine, faranno 15 minuti di applausi. L’importante è che tu rimanga concentrata sul tuo gioco e sul tuo divertimento, perché è difficile che, se fai qualcosa divertendoti, questa non passi al pubblico.

Cinema, teatro e televisione: tre luoghi diversi dove poter esprimere la propria arte e dove poter dare il meglio di sé. Quanto sono diversi e qual è l’ambiente in cui si trova più a suo agio?

Il teatro è la mia vera casa. Il cinema è un’esperienza più esaltante, una specie di droga; produci  endorfine quando fai cinema, ed è una novità, nella mia esistenza, che mi sta dando tanto, sia a livello professionale che personale. Spero di interpretare ruoli sempre più vasti, e non parlo della loro quantità, ma della qualità: vorrei potessero avere tante più sfumature. Il fatto è che quando ti propongono delle figure comiche, nella maggior parte dei casi sono create partendo solo da semplici battute. Manca l’approfondimento psicologico del personaggio, che invece è fondamentale per questo lavoro, perché lo arricchisce. Tutti questi ambiti, comunque, sono pezzetti che fanno parte della mia esistenza, ma se dovessi sceglierne uno, sarebbe il teatro: è sicuramente il luogo in cui ho più esperienza e quindi quello dove mi sento a casa.

Il sogno impossibile: un regista con cui vorresti lavorare e un attore con cui vorresti recitare.

Oddio! Di impossibili  ne ho duemila, ma poi tutti i sogni sono impossibili, sennò che sogni sarebbero? Se fai dei sogni possibili non vale! Per quanta riguarda le collaborazioni: da Meryl Streep a Scorzese, da Di Caprio a Cate Blanchett, per dirne solo alcuni. Anche in Italia ci sono molti colleghi e registi con cui vorrei lavorare: Virzì, Luchetti, Segre, ma anche giovani, come Matteo Leotto. Ho già recitato con Elio Germano, ma lo farei di nuovo! Insomma, in Italia ci sono tantissimi artisti e artiste che conosco e che sarei onorata di incontrare in questo percorso.

È già stata gradita ospite a Musicultura, nel 2010. Come sa, quest’anno il festival compie 25 anni. Ha notato un’evoluzione dall’ultima sua partecipazione?

Per prima cosa: auguri! Buon compleanno! Passiamo alle cose serie: Musicultura è un Festival in perenne evoluzione e cambiamento, e la cosa che mi colpisce di più non è tanto il traguardo, ma il percorso, perché ogni anno ci sono delle novità, degli esperimenti, e questo è molto interessante. Ricordo, per esempio, che il primo anno che sono stata ospite c’era un progetto sulla poesia dialettale. In questa manifestazione si trovano sempre delle proposte interessanti fuori dal comune.

E lei cosa proporrà quest’anno?

In realtà io non propongo, ma mi è stata fatta una proposta: quella di essere ospite e fare una chiacchierata con il pubblico e con degli allievi. Mi è sembrato molto interessante e ho accettato. Fra l’altro, l’ultima volta che sono stata qui come ospite, a questo incontro c’era Lina Wertmüller:  è stato un grande onore ricevere questo invito. Ora andiamo e vediamo che succede!

INTERVISTA – Tiziana Cera Rosco: la creatura che in punta di piedi si è affacciata alla porta dell’universo.

“Tutto quello che succede nell’arte è utile” e la poesia essendo puro spirito può ridare all’essere umano quella selvatichezza alla quale non si approda facilmente con le altre espressioni di scrittura come la letteratura. Spesso nei suoi scritti la Cera Rosco parla del bosco e di tutto ciò che lo caratterizza, andando ad ampliare e chiarire la sua visione sulla libertà e la selvatichezza. La sua ricerca poi non è solo sulla parola, ma anche sul silenzio, visto non come interruzione dei suoni ma come conquista della capacità di ascolto del proprio canto dell’esistenza. Nelle sue perfomance si percepiscono vibrazioni molto sottili ma allo stesso tempo intense, perché alla parola si associa il corpo dove  la gestualità, il movimento e gli oggetti di scena diventano un insieme imprescindibile, dando il giusto peso alle parole.

Musicultura da 25 anni dà voce sia alla canzone d’autore che alle arti in generale, qual è il suo punto di vista riguardo il festival e la sua missione?

Missione è un termine bello impegnativo. Io conoscevo il festival perché ho partecipato alla stesura di varie canzoni per molti cantautori che sono venuti qua. Musicultura ha una grande eco soprattutto per quanto riguarda la poesia che è il mio campo d’origine che poi genera tutto il resto, sono anche molto contenta che si chiami in questo modo  in quanto dalla musica parte anche la parola. Prima sentivamo una conferenza sulla musica che diceva “è dal suono che viene originata la materia” e quindi è anche un po’ come questo festival  che si sta espandendo, perché sebbene mi ricordo all’inizio era molto più piccolino e man mano cresce proprio come si propaga il suono oppure un sasso nell’acqua.

Ha scritto canzoni per molti artisti. Sapendo che ogni parola ha una musicalità e un ritmo, quanto si discosta un testo poetico da una canzone?

Sono due mondi. Non è che si discosta, è come parlare di Marte e di Venere però come succede in tutto l’universo, le cose si avvicinano per risonanza quindi è come ci fosse un punto in cui risuonano insieme e forse è proprio in questo che le affratella, s’incontrano molto bene. Di tantissimi cantautori si dice che siano poeti perché in qualche modo rispecchiano un sentimento profondo che schiude qualcosa che magari una canzonetta da sola non fa, quindi anche quando si parla di musica leggera è meglio andarci piano, perché a volte la musica leggera è molto intensa. Come spesso anche quando si parla di poesia in realtà non si considerano delle altre parti che sono molto sperimentali e d’avanguardia, molto dure, dove il sentimento poetico viene abbastanza scavalcato. Sono due mondi che sicuramente si avvicinano, si parlano, comunicano, si comprendono ma non sono un unico mondo.

Cosa propone per il pubblico dello Sferisterio?

La mia partecipazione a Musicultura è molto semplice. Mi avevano chiesto un testo, ho preferito non farne uno mio, ma di portare il testo di un’altra poetessa e ho scelto di mettermi addosso i testi della Szynborska che non mi ha ispirato da subito quando ero ragazzina, perché di solito metto in scena solamente testi che mi hanno ispirato. Questo è un testo che è venuto col tempo, parla della pietra e all’interno di un festival di musica leggera diciamo che mette un po’ di sana pesantezza. Questa performance si porta dietro anche un aspetto musicale, infatti ne  ho scritto anche la musica e costruisco la gonna – in complesso che tutto quello che si vede è un manufatto e secondo me è un po’ la direzione dove anche le cose umili riprendono ad avere la loro dignità e quindi sono assolutamente onorata di partecipare con un mio intervento che però non parla di me ma parla di un’altra poetessa.

In Conversazioni con una pietra avvalorerà i testi con la sua fisicità in modo quasi teatrale. Come mai sceglie questa tipologia d’interpretazione della poesia?

E’ una performance artistica più che teatrale probabilmente la si vede sotto quest’occhio perché si è all’interno di un contesto quale lo Sferisterio. Negli ultimi tempi la poesia per me si è spostata proprio sulla parola oltre che sul silenzio quindi non è soltanto la scrittura della poesia, allora in questo senso, quando si sposta sulla parola come dice Rilke: “Canto è esistenza”, essa cerca di esistere nel suo massimo ed è per questo che ho cercato di dare  anche fisicamente altezza a questa cosa,in modo tale che le persone siano spinte ad alzare la testa, lo sguardo, l’ascolto per la poesia che molto spesso è come se fosse in un cantuccio quindi o intimamente presente o quasi dimesso. Inoltre in questa occasione ho cercato di dare una risonanza un pochino più centrale.

Perché nel suo lavoro poetico che presenta a La Controra, la creatura viene definita ininterrotta?

Questo è un libro, ovvero uno sguardo di tutte le cose che ho fatto da prima fino ad ora e sono contenta di presentarlo qua, perché è una scrittura che parte dal suono. Quando è stato concepito, stavo ascoltando un compositore immenso che si chiama Ezio Bosso che l’Italia dovrebbe valorizzare molto di più, infatti ha lavorato e lavora molto di più all’estero. La sua è una musica che mi ha permesso dei passaggi e soprattutto mi ha dato accesso a qualcosa di remotissimo, la  parola questi ingressi li porta in sé ma alle volte non si riesce ad aprirli. Quindi l’incontro per me con questa musica mi ha dato la possibilità di esplorare una profondità, un qualcosa di remoto di molto antico quasi universo come se fossi in giù è come se accedessi a qualcosa che tocca tutto che non si interrompe mai: né col dolore, né con la felicità o con le cose che la vita ti propone ma solamente ininterrottamente ti porta in contatto con qualcosa.

Lei è una poetessa e fa della parola un  vero e proprio impegno, e mi riferisco a Terapia della Lettura. Qual è il fulcro di questo progetto educativo  di cui lei è l’ideatrice? Mi incuriosiva approfondire Genere F che possiamo definire una costola di Terapia della Lettura.

I primi corsi sono nati per i ragazzi e anche per evitare la solita caduta nei termini della psicanalisi, che sembra essere quasi l’ultima spiaggia per sondare una profondità che dentro di te si è complicata. Durante questi laboratori venivano usati testi che normalmente non vengono affrontati perché difficilissimi, invece se riproposti in un altro modo divengono strumenti, delle sonde che entrano dentro di te e da lì poi vedi cosa ti ritorna dietro. Per me è stato importantissimo vedere la risposta di quella fascia d’età che è risultata propulsiva al massimo, quindi non serve mettere tutto nel dolore come se fosse una scatola che qualcun altro deve saper leggere perché per te è inaccessibile, non è così. Poi da questo si sono sviluppate una serie di cose laterali, di tutto quello che riguarda la luce come immersione della lotta su Caravaggio e riguardo Genere F vengono analizzate le figure di artiste femminili e non solo poetesse, che oltre alla loro complessità e al loro talento vi è anche un principio di dolore e difficoltà fortissimo infatti talvolta alcune di loro ci sono rimaste secche. A questo punto poi si va a vedere se i termini e le cose che loro usavano per esprimersi, per sondarsi se valgono anche per noi, perché tutto parte da un principio: tutto quello che succede nell’arte è utile e quindi l’utilità bisogna solamente capire in che campo dell’esistenza farla entrare.

INTERVISTA a Oliviero Malaspina: un artista in continuo divenire

Oliviero Malaspina, per due volte vincitore del festival Musicultura, nel ’91 e nel ‘93, ha presentato il suo nuovo album di inediti Malaspina agli antichi forni di Macerata introducendo e presentando i brani più importanti al pubblico maceratese. Ha collaborato con Cristiano De Andrè e suo padre Fabrizio e nel 2000 ha preso parte al concerto genovese a lui dedicato: “ Faber, amico fragile”.

Nel suo nuovo cd è presente anche la canzone “Migranti”, il cui testo è stato scritto a quattro mani con il grande cantautore ligure. Non solo musicista, ma anche scrittore e poeta, rappresenta l’artista a trecentosessanta gradi di cui il Premio città di Recanati per primo riconobbe il grande potenziale.

E’ sia cantautore, paroliere che scrittore ed ha pubblicato vari libri e raccolte di poesie, oltre a cinque album. A questo punto della sua carriera, Oliviero Malaspina in che ruolo si riconosce di più, in quello di scrittore o in quello di musicista?

Non riesco a riconoscermi in nessuno di questi ruoli, mi ritengo un artista in divenire: voglio fare un milione di cose diverse e vorrei riuscire a completarle tutte bene. Senza lasciare niente in sospeso.

Ha collaborato con Cristiano de Andrè, ma anche, anni addietro, con suo padre Fabrizio, per il quale ha aperto i concerti dell’ultimo tour. Che ricordi ha di questo periodo della sua vita e cosa può raccontarci della sua collaborazione con il grande cantautore genovese?

Direi che è stato il periodo più bella della mia vita, finito nella maniera più drammatica possibile. Ho una quantità di ricordi infinita, ma solitamente, anche se racconto qualche aneddoto agli amici, è una parte della mia vita che preferisco tenere per me per una sorta di salvezza personale.

Presenta il suo ultimo album di inediti: Malaspina. Come si è sviluppato questo suo nuovo progetto musicale? Quale canzone ritiene la rappresenti di più e perché?

Riconoscersi in un concept album o in una canzone è molto difficile. Nello sviluppo del mio album ho deciso di non rimanere a casa, ma di andare per strada, conoscere e stare a contatto con altre realtà umane: quelle dei senzatetto e degli zingari. Il mondo del diverso, non del marcio. I mali della società non stanno per strada, ma stanno in altri luoghi. Ho cercato un approccio neorealista che però mi concedesse anche degli spazi “poetici”.

Crede che una manifestazione come Musicultura riesca a dare giusto spazio e visibilità agli artisti emergenti o pensa che ormai il mondo televisivo – in particolare i talent show – sia l’unico trampolino di lancio possibile?

Siamo di fronte ad un binario duplice. Il problema è che se negli anni passati queste due realtà riuscivano a convivere, adesso c’è una tensione fortissima. Forse a causa di una grande manovra dei network, vengono a mancare manifestazione alternative che danno spazio a concetti, non solo ad effetti. Non dividerei la musica in bella e brutta: definirei la musica prodotta da Musicultura e dei festival simili come musica per adulti, quella prodotta dai talent come X Factor musica per “bambini” e capiamo questa differenza se andiamo ad uno dei concerti degli artisti usciti dai talent. E’ un po’ come parlare della fine dello “Zecchino d’oro”: la funzione educativa della manifestazione educativa viene a mancare e si creano inevitabilmente questi due poli opposti, che però fortunatamente non si attraggono.

INTERVISTA – Marco Ciriello: l’anima del calcio come strumento per comprendere la realtà

Marco Ciriello , scrittore e giornalista, presenta a Musicultura il suo ultimo romanzo Per favore non dite niente, liberamente ispirato alla storia di Cesare Prandelli. Protagonista è Marco, ex calciatore diventato allenatore, che lascia la panchina per assistere la moglie Carla malata di cancro, immergendosi a fondo nella parte sommersa della sua vita, tralasciando il chiasso dei giornali e della tifoseria, che diventa solo un rumore di sottofondo. Cesare Prandelli, attuale allenatore della Nazionale, nel 2004 lasciò la direzione tecnica della Roma a causa della grave malattia della moglie Manuela, dichiarando: «Era lei la mia priorità. Molti si sorpresero […] Il calcio a volte ha paura della normalità».

Per favore non dite niente è una storia raccontata al maschile declinata al femminile, con una donna che istruisce alla dolcezza e alla delicatezza il suo compagno. Quanto una persona può imparare ed apprendere da colui o colei che le sta accanto?

Sicuramente molto, nella vita di coppia si ha una sorta di scambio: si sceglie di vivere con altre persone per avere un mondo che non è il nostro e per crearne un altro insieme, con l’apporto di due culture, esperienze ed educazioni sentimentali differenti.

Questo è sicuramente un romanzo sul dolore, di cui ciascuno può avere esperienza nella propria vita, come la morte per cancro di una persona che ti sta accanto. Pensi che la vera anima di uno sport nazionale come il calcio possa istruire i giovani all’affrontare il dolore e la realtà?

In realtà può istruire, e ciò dipende dagli educatori, dagli allenatori, dalle squadre, ma principalmente dalle famiglie di provenienza. Nel calcio ci sono stati moltissimi dolori, alcuni affrontati bene, altri male, tra tutti ricordo Morosini, calciatore morto sul campo di cui la storia e l’esempio non sono stati ancora ben recepiti.

Nel romanzo Carla si ammala e Marco sceglie di dedicarsi solo a lei. Questo non può che ricordare una storia vera, quella del commissario tecnico della Nazionale italiana, Cesare Prandelli, e infatti ne è liberamente ispirata. Quanto veramente c’è di Prandelli nel tuo romanzo?

Innanzittuto c’è il linguaggio di Prandelli, la sua medietà e delicatezza sia nell’affrontare la storia con la moglie, sia nell’allenare che nell’accogliere i calciatori. Pensiamo ad esempio al rapporto quasi paterno che cerca di instaurare con Balotelli.
Prandelli sembra aver trovato il linguaggio per far diventare i suoi ragazzi calciatori e nello stesso tempo uomini.

E’ nota la storia della diffida firmata dall’ufficio legale della federcalcio, forse più del tema di cui si occupa il romanzo. Come hai affermato, la lettera della Figc è la chiara dimostrazione che il libro non è stato letto nemmeno da Prandelli. Come è stato interpretato, secondo te, ciò che è solo un atto d’amore per il calcio, per lo sport e per una storia che ha colpito tutti?

E’ stata interpretata male, come del resto fa sempre il potere in Italia. La Figc è un potere, quello del calcio, che prima ti da un calcio in faccia e poi ti chiede cosa volevi.
Penso che non leggendo il libro e diffidandolo, abbiano fatto indubbiamente una brutta figura, Prandelli compreso. Non hanno capito il messaggio, rimanendo lontanissimi dal linguaggio della letteratura e delle narrazione dell’occidente. Penso che col tempo, e leggendo il libro, si capirà che questa è una storia qualunque che ha dato vita ad un libro pieno di delicatezza, proprio perchè ne era piena.

Da anni musicultura rappresenta la fusione tra la musica e molteplici forme d’arte, compresa la scrittura, che riveste un ruolo fondamentale. Come un autore può esprimere al meglio le proprie idee e i propri pensieri?

Trovando il linguaggio più adatto per lui. C’è chi lo fa con la musica, io lo faccio con la scrittura, dove c’è comunque suono. Nei precedenti libri ho usato diverse lingue, una addirittura inventata. Un metadialetto pieno di musica e sonorità, proprio perchè avevo bisogno di restituire un mondo pieno di culture differenti, soprattutto quelle africane. In questo libro, invece, avevo bisogno di moltissimo silenzio, tanto che mi sono ispirato a Mahler ed al silenzio che c’è nelle sue opere.

INTERVISTA – La tecnologia che aiuta la musica: intervista a Quirino Cieri

Dal 19 al 21 giugno, Quirino Cieri propone, presso gli Antichi Forni di Macerata, i suoi “Ascolti in hi-fi”: una serie di incontri finalizzati all’ascolto della musica attraverso strumenti d’avanguardia che possano rendere ottimale la qualità del suono. La tecnologia utilizzata vuole essere un ulteriore supporto alla riproduzione musicale che, purtroppo, molto spesso si avvale di mezzi che indeboliscono le potenzialità comunicative proprie di ogni canzone.

In occasione del Festival di Musicultura, i suoi incontri mirano alla sensibilizzazione del pubblico nei confronti dell’ascolto musicale. Quanto pensa sia importante, nella vita e per la vita di tutti i giorni, la musica?

Penso che la musica sia importante, anzi importantissima: l’ascolto della buona musica, eseguita in un certo modo piuttosto che in un altro, fa parte della nostra vita quotidiana e rientra nel processo di formazione artistica e culturale di tutti noi. Ma non solo: la musica ha un ruolo fondamentale anche per quella che mi piace definire “formazione emotiva e sensibile”. È un po’ come andare al cinema per vedere un film che non sia il solito “cinepanettone” natalizio, ma un film che possa lasciare qualcosa in più; lo stesso accade con la musica. Di conseguenza, è importante avvicinarsi all’ascolto musicale non attraverso mezzi che siano in un certo senso “poveri”, come i lettori portatili o le cuffie che troviamo al supermarket a prezzi stracciati, ma con qualcosa che, pur avendo un costo non eccessivo, possa permettere l’ascolto in maniera più partecipativa, più consapevole e più attenta a certi dettagli delle registrazioni.

Anche se in modi diversi e attraverso strumenti differenti, la sua azienda e Musicultura sono entrambi produttori di musica: che tipo di connessione si può stabilire tra l’ascolto in hi-fi ed il Festival?

Siamo stati invitati, come azienda, ad utilizzare i nostri prodotti per far ascoltare al meglio la musica. In questo preciso contesto, che è quello di Musicultura e che non è quindi commerciale, non siamo chiamati a promuovere o vendere i nostri prodotti, i quali vengono semplicemente messi a disposizione di chiunque per far sì che la musica possa essere ascoltata in modo ottimizzato. L’obiettivo di fondo è comunque quello di proporre brani musicali che vengano anche trattati tenendo conto del loro background culturale, ad esempio comprendendo la storia di quel pezzo, le sue motivazioni, le fasi di registrazione e le intenzioni del suo autore.

Quanto pensa sia importante, adesso, il ruolo della tecnologia per la diffusione dei prodotti musicali? In altre parole, crede sia un mezzo imprescindibile o riesce a vedere altre alternative?

La tecnologia, adesso, ha già raggiunto un livello elevatissimo ed ha fatto passi da gigante in pochi anni, però viene, di solito, usata male o non adeguatamente. Alcuni interventi che propongo nelle mie presentazioni sono basati proprio sul modo in cui, purtroppo, spesso la musica viene letteralmente massacrata attraverso la ricerca del volume sempre più alto. Bisogna capire che non è alzando il volume al massimo che la qualità dell’ascolto migliora. Nonostante questa tendenza sia andata sempre più consolidandosi negli ultimi dieci, quindici anni, proprio per un preciso motivo commerciale e discografico, fortunatamente si sta assistendo ad un “ritorno alle origini”: sia gli artisti che i produttori, piuttosto che gli stessi studi di incisione, infatti, si stanno rendendo conto che si deve fare un passo indietro, si deve tornare a proporre la musica utilizzando le sue naturali dinamiche di ascolto, anche attraverso i silenzi. Quello che, di fatto, accade per la musica classica, dovrebbe in realtà essere trasferito nell’ambito della musica leggera, pop, rock, e così via. E per fortuna sono sempre di più gli artisti che stanno comprendendo questa necessità.

Musicultura, il Festival della musica popolare e d’autore dedicato ai giovani artisti, tende in un certo senso a mantenere viva la tradizione musicale italiana. Che futuro prevede per la nostra musica? Crede che l’avanzamento tecnologico possa nuocere o essere invece d’aiuto alla trasmissione di una certa cultura popolare?

Sicuramente la tecnologia può essere di grande aiuto. Mi viene in mente, ad esempio, il fatto che adesso è molto più semplice, rispetto a qualche anno fa, registrare musica in casa propria, in piccoli studi improvvisati, o in minuscole cantine, con mezzi più economici rispetto a quelli che si trovavano in commercio fino a poco tempo fa, ma che permettono comunque di raggiungere un risultato migliore. Ma ci vuole molta sensibilità: bisogna conoscere bene i mezzi che si stanno usando, saperli utilizzare nel modo migliore e non aver paura di chiedere agli specialisti del settore informazioni utili su come ottimizzare il loro uso senza degenerare in cattive abitudini. Uno strumento che, in questo senso, può essere d’aiuto, passa attraverso la conservazione di un Archivio storico musicale italiano. A Roma, ad esempio, esiste la Fonoteca di Stato, che conserva tutte le registrazioni pubblicate nel nostro Paese; non so sinceramente se ad oggi sia ancora attiva al cento per cento, probabilmente è una di quelle istituzioni che sta risentendo in modo particolare dello snaturamento culturale attuale. Potrebbe essere una buona idea quella di creare una specie di Archivio centrale digitale, consultabile on-line e ad accesso gratuito, che conservi campioni di registrazioni a disposizione di tutti gli utenti.

INTERVISTA – Luigi Lo Cascio e il lato umano del fare l’attore

Nel nostro immaginario, Luigi Lo Cascio è Peppino Impastato, è Nicola Carati, è Saro Scordia; è uno straordinario attore teatrale, capace di tenere il palco in Amleto e Sogno di una notte di mezza estate; è il vincitore di Nastri D’argento, David di Donatello e premi UBU; e, per finire, è il regista di alcune pièces teatrali e di un film, La città ideale. Ma questo non è Luigi Lo Cascio, questo è solo il suo lavoro. Lo dimostra all’incontro organizzato da La Controra: si relaziona con la sala gremita di persone di tutte le età con un fascino e una sicurezza che lasciano la platea totalmente ammaliata. Parla di quanto sia grato alla sua famiglia, di quanto gli piaccia il lavoro che fa, dei suoi desideri, di alcuni aneddoti riguardanti il suo passato, degli esordi, di cinema e letteratura; risponde alle domande che gli vengono poste dai ragazzi del laboratorio de La Controra e guarda con piacere i video realizzati per lui; il tutto intermezzato da scene esilaranti, che alleggeriscono l’atmosfera: si alza per chiudere la finestra perché “c’è corrente”, chiede al pubblico di non farsi fare foto e video perché “non ha il fisico” e ci dice che, a lui, il suo film da regista è piaciuto molto. “Se dico qualcosa degno di rimanere nella vostra memoria, lo ricorderete. Sennò, meglio che lo dimentichiate”. Io ricordo tutto. E adesso mi piaceve scriverlo. Signore e signori, Luigi Lo Cascio:

Ha interpretato molti ruoli forti, impegnati, “politici”, se mi passa il termine. Ha mai avuto paura di non riuscire a rendere loro giustizia?

A prescindere dal ruolo che interpreto, rimango sempre un po’ insoddisfatto. Nel teatro la cosa è diversa: il fatto che ci siano 30 giorni di prove permette di interiorizzare, poco a poco, il dispiacere di non essere all’altezza di rendere giustizia ai grandi autori. Siamo troppo piccoli, ci manca la strumentazione intellettuale e sentimentale adeguata al privilegio di poter pronunciare certe parole. I giorni di prova ti permettono di abituarti all’idea di accontentarsi della forma che hai raggiunto, cercando di rimanerci il meno male possibile. Per quanto riguarda il cinema, invece, vivo tutti i giorni col dispiacere di non aver potuto raggiungere qualcosa di più preciso, di più in linea con come secondo me le cose andavano fatte. È un mestiere, per come l’ho appreso io, dove la forma è provvisoria; c’è sempre una possibilità ulteriore di miglioramento che spesso il tempo, o le tue capacità, ti negano. A volte vivo con grande dispiacere il lavoro di attore, perché impone il doversi fermare ad un certo punto. Ma questo è anche il suo bello, è la cosa che lo rende più umano, perché anche nella vita non abbiamo modo di provare, e siamo sempre impreparati. La risposta, quindi, è che, al di là del ruolo politico o meno, io sento sempre di avere una responsabilità rispetto ai testi che interpreto e vivo con dispiacere il fatto di non essere mai, purtroppo, del tutto adeguato.

Lei pensava di non essere adatto al mondo del cinema e di appartenere maggiormente al teatro. Ha vinto il David di Donatello per l’interpretazione di Peppino Impastato nel film I Centi Passi, primo ruolo in assoluto che ha interpretato cinematograficamente, cui ha fatto seguito una brillante carriera. Questo l’ha aiutata a modificare il pensiero che aveva su se stesso o continua a preferirsi sul palco?

È difficile rispondere in poche parole. Mi piace moltissimo il lavoro che provo a fare al cinema e ho imparato ad amarlo ancora di più dopo aver fatto il regista, perché mi ha permesso di provare una posizione più scomoda: quella di chi propone il film. L’attore è facilitato nel rapporto con questo mestiere, non deve pensare a molte cose e deve concentrarsi solo sul personaggio. Per permettegli di vivere sul set lo stesso sentimento che prova quando sale su un palcoscenico teatrale, però, il cinema deve disporre di un grande personaggio, un grande autore e una grande sceneggiatura. Se siamo a livelli molto alti, insomma, è gratificante anche il mestiere cinematografico, ma non capita spesso. Nel teatro puoi entrare in scena senza un montatore che sceglie per te o un regista che preferisce un tipo di angolazione piuttosto che un’altra; sei totalmente responsabile di quello che il pubblico vede. Fondamentale è anche l’approfondimento del personaggio: quando si recitano testi di importanza capitale, bisogna essere consapevoli di stare pronunciando parole che hanno attraversato millenni. Recitare una battuta di Edipo, davvero, anche una sola, è qualcosa di vertiginoso. All’attore cinematografico non sempre è richiesta questa presenza assoluta e questo livello di messa in gioco; perché una cosa è mettersi in gioco in ambito professionale, tipo sbagliare un film, e un altro è mettersi in gioco come uomo, capendo quanto peso abbia il dover dire certe parole come se fossero tue. Il teatro, in questo senso, ti impone una grande strumentazione emotiva e culturale che non sempre il cinema richiede.

L’uomo Luigi Lo Cascio è indiscutibilmente diverso dall’attore, e come tutti ha avuto sogni e delusioni. Se non ce l’avesse fatta in questo campo, chi sarebbe lei oggi?

Io, in realtà, volevo fare il medico; lo psichiatra, per l’esattezza. È una cosa che mi ha sempre affascinato, sin da ragazzino: la maggior parte dei miei parenti, appartenenti al lato materno della famiglia, sono dottori, e mio zio, che ha ricoperto un ruolo molto importante nella mia formazione, è proprio psichiatra. Se non fossi diventato un attore, quindi, avrei fatto quello; ho anche frequentato la facoltà di Medicina. Ne La meglio gioventù il mio ruolo era appunto quello di uno psichiatra, ed era anche il tipo che mi sarebbe piaciuto essere; l’ho trovata una felice coincidenza, perché anche nella finzione sono riuscito a percepire che quella era una vita che poteva essermi cara. Non l’ho mai dimenticato.

Nel 2012 ha scritto, diretto ed interpretato un film che ha concorso alla Biennale di Venezia, La città ideale. Pensa che rimarrà un caso isolato?

Mi auguro di no, ma non dipende da me. Posso dirti, magari, che scriverò ancora poesie, perché bastano la mia stanza, un foglio di carta, la penna e quello che mi viene in mente. Posso anche decidere di fare uno spettacolo teatrale in una saletta piccola, perché sono certo possa accadere. Col cinema, invece, non si può mai dire: fare un film costa troppo, bisogna convincere tante persone ad aiutarti. Il cinema non si fa da solo. È una cosa che non dipende da me, ma desidererei fortemente fare un’altra esperienza in questo campo.

Musicultura, il festival della canzone popolare, aiuta da ormai 25 anni giovani artisti emergenti ad ottenere visibilità cercando di eludere le logiche del mercato; permette, inoltre, a centinaia di artisti già affermati, in campo musicale e non, di interagire con il pubblico. Secondo lei quanto questo tipo di manifestazioni risultano effettivamente funzionali alla promozione della cultura in un paese?

Non te lo so dire in termini numerici, ma sono certo che queste cose siano fondamentali; non nel senso di importanti, ma proprio nel senso di “rappresentanti il fondamento”, basilari. Stiamo andando verso una sorta di imbarbarimento culturale. Nonostante io ancora non sia riuscito a fare qualcosa in merito, mi auguro di poterlo fare in futuro, perché penso che queste iniziative siano di grande importanza. Poi è ovvio che bisogna sì fare queste cose, perché sono occasioni di crescita e rappresentano quasi una forma di resistenza, ma bisogna anche focalizzarsi sul vero compito: cambiare le mentalità. È chiaro che cose come il cibo o la sanità rappresentino una priorità, ma non si può e non si deve sminuire l’importanza degli incentivi alla cultura. È fondamentale riuscire a capire che non si vive di solo pane, e bisogna cercare poi di farlo passare anche agli altri. Siamo tutti essenzialmente diversi grazie alla cultura! Nel momento della costruzione dell’identità, della moralità e del sentimento politico si passa anche attraverso l’apprendimento culturale di certi autori e di certe musiche. Noi siamo questo: io sono diverso da te perché le nostre storie sono diverse e questo è dovuto agli incontri che abbiamo fatto; incontri di tipo affettivo, certo, ma anche di genere culturale. Essendo noi molto piccoli, il poter ricevere l’insegnamento dei grandi dovrebbe essere considerato un privilegio. Perché non lo è per tutti? In questo senso penso sia importante che le persone che fanno questo mestiere riescano a trasmettere a tutti il valore della cultura; i tagli ai settori culturali e alle università non possono più essere trattati come un male minore, le persone devono sentire il torto che subiscono.