Occasioni, spontaneità e un pizzico di magia: intervista a Carolina Di Domenico

La ricordiamo tutti come il volto amatissimo di Disney Club che, insieme a quello di Giovanni Muciaccia, teneva migliaia di bambini incollati alla TV nei primi anni 2000. Poi è arrivato il lavoro come VJ per MTV Italia, che ha dato una svolta alla sua vita e accompagnato la crescita di un’intera generazione. Comincia così la carriera di Carolina Di Domenico nel mondo della conduzione televisiva e radiofonica, che si è intrecciata alla sua storia d’amore di vecchia data con la musica. A dare il la sono le occasioni colte al volo. Il resto è da scrivere, passo dopo passo, con serietà e competenza. Nell’intervista rilasciata alla Redazione Sciuscià, Carolina ci parla dell’importanza di trovare la propria strada, di essere riconoscibili e di capire facendo, lasciando dietro di sé una scia magica di risate e spontaneità.

Hai alle spalle una lunga carriera nella conduzione televisiva, radiofonica e nel mondo dello spettacolo in senso lato, ma, come dichiari spesso nelle interviste, hai cominciato un po’ per caso. Quando hai capito di voler trasformare la tua passione in una professione?

In realtà, il mondo dello spettacolo non era una mia passione; o meglio, lo era, ma dal punto di vista della produzione.
Ho studiato Scienze della Comunicazione e sicuramente quest’ambito mi interessava. Ma se alla fine del liceo o all’inizio dell’università mi avessero chiesto cosa volessi fare da grande, avrei risposto: “Produzione”. Poi, all’età di 19 anni, mi è capitata l’occasione di Disney Club, il primo programma televisivo che ho condotto assieme a Giovanni Muciaccia. Avevo iniziato a fare qualche lavoretto per mettere dei soldi da parte – facevo l’animatrice di feste per bambini – e un giorno un mio amico mi ha consigliato di iscrivermi a un’agenzia di pubblicità, dicendomi che mi avrebbe impegnato poco tempo e che sarebbe stato economicamente remunerativo. Quindi mi sono detta “facciamolo” e da lì è partito tutto. Però non era assolutamente previsto. Solo quando ho iniziato a lavorare, piano piano, ho capito che si sarebbe potuta trasformare in una professione. Ho avuto la fortuna di capirlo facendolo.

Sei passata dalla TV alla radio, due media diversi tra loro: il primo centrato sulla gestualità, l’immagine e l’occupare spazi; il secondo sulla voce, il suono e il riempire i silenzi. Come hai vissuto questo cambiamento e con quale dei due ti senti più a tuo agio?

Tra radio e TV cambia tutto. Quando ho cominciato a lavorare per MTV, il mio collega Federico Russo già lavorava per RDS e mi chiedeva spesso di andare a fare un provino in radio. Io che ho iniziato a fare questo lavoro unendo voce e immagine, ero terrorizzata all’idea di lavorare solo con la voce. Poi, 15 anni fa, io e mio marito abbiamo ideato un progetto che parlava di musica. Ho pensato potesse essere interessante e deciso di provare.
Anche in questo caso: lavorare, praticare, capire facendo. Funziona sempre. Abbiamo cominciato in una radio locale, dove eravamo molto liberi di sperimentare senza la pressione di un grande network. Col passare del tempo, è diventata una necessità. A differenza della televisione, secondo me, la radio diventa un bisogno quotidiano: una volta che instauri un rapporto giornaliero con il mezzo radiofonico, se smetti comincia a mancarti. La televisione, invece, su di me esercita un effetto diverso: mi piace tantissimo lavorarci, ma se smetto per un po’ non sento subito la mancanza di stare sul palco. Con la radio invece sì. Non so esattamente cosa scatti nel cervello di una persona, ma noto che tutti quelli che fanno radio dicono la stessa cosa. Evidentemente dev’esserci una magia – e forse anche un pizzico di egocentrismo legato all’ascoltare la propria stessa voce nelle cuffie – nel fare radio.

A proposito di radio, tutti i fine settimana conduci 610 con Lillo e Greg. Dagli scatti postati sui social si intuisce che insieme vi divertite parecchio. Com’è lavorare al fianco di due comici?

Io ho sempre condotto programmi musicali, per esempio Rock and Roll Circus su Radio 2.
L’occasione di lavorare con Lillo e Greg mi è capitata quattro anni fa. Li conosco fin dai tempi di Latte & i Suoi Derivati e sono da sempre una loro super fan, perciò cerco di rimanere tale e divertirmi anche a 610. Per esempio, quando possibile, evito di leggere in anticipo i loro sketch per mantenere l’effetto sorpresa da ascoltatrice. Il dramma è che durante le puntate rido così tanto che a volte non riesco ad andare avanti. Però, secondo me, la bellezza della radio sta proprio in questo: la spontaneità. È difficile programmare. Si hanno, naturalmente, dei punti di riferimento e una redazione che crea contenuti, però nessuno va a copione. Questo crea quella magia che ti permette di esprimerti in maniera spontanea.

Musicultura è un tassello che si aggiunge al vasto mosaico di programmi musicali condotti o commentati negli anni – MTV Day, The Voice, Eurovision Song Contest, Tim Music Awards, per citarne alcuni – e tu stessa sei una grande appassionata di musica. Che consiglio daresti ai giovani vincitori del Festival?

Di capire se c’è davvero spazio per loro in questo mondo.
Oggi tutti vogliono fare musica. Siamo in un momento difficile in cui sulla scena musicale c’è un enorme sovraffollamento. Avere la voce riconoscibile, e distinguibile da quella di altri, è fondamentale.Basta fare una prova: se canti di fronte a tre persone che non ti conoscono e riescono a distinguere la tua voce a occhi chiusi, allora sei sulla buona strada. Se io mi trovassi di fronte a qualcuno con una voce molto simile a quella di Emma o di qualche altro artista di grande successo, gli consiglierei di fare altro. La musica non è fatta solo di cantanti, ma anche di supporti, coristi, ovvero persone con delle bellissime voci che vanno in giro a cantare insieme agli altri. Poi, c’è il mondo degli autori: se scrivi delle bellissime canzoni, ma non sei un bravo performer, non salire sul palco, scrivi canzoni; potresti cederle alle corde vocali di un artista famoso e, così, guadagnare un sacco di soldi. Dietro la musica c’è tutto un mondo. Se vuoi fare il musicista, devi capire qual è la strada adatta a te e se la tua voce è riconoscibile. È fondamentale per non perdere tempo ed evitare tutte quelle frustrazioni che si vivono quando si fanno troppe cose e nessuna bene. Questo è il consiglio spassionato che darei ai vincitori di Musicultura.

Ti batti molto per i diritti dei lavoratori del mondo dello spettacolo e, in particolare, per l’attuazione dei decreti per l’indennità di discontinuità per artisti e tecnici.Quanta strada c’è ancora da fare su questo fronte e cosa significa per te questa battaglia?

Credo sia fondamentale impegnarsi su questo fronte. Chiunque abbia lavorato nel mondo dello spettacolo sa bene che ci sono dei periodi in cui si lavora tanto e dei periodi di pausa.
Basta pensare a una manifestazione come Musicultura: non è fatta di ieri e oggi, ma probabilmente di un anno di preparazione, e quell’anno dev’essere retribuito e riconosciuto. È arrivato il momento di impegnarsi, unirsi e battere i pugni. Un primo passo è stato fatto: c’è stato uno stanziamento di fondi, anche se non enorme. Ma non bisogna fermarsi, ora è il momento reclamarli a gran voce e chiedere l’attuazione dei decreti. Lo stanno facendo associazioni che si battono per questo come La musica che gira o Scena Unita. Molti artisti hanno portato il loro supporto. Io, ogni volta che posso, sottolineo l’importanza di questa battaglia. Quando in una manifestazione come questa si riesce a far esibire una band con un distacco di 3 minuti rispetto a quella precedente, è perché ci sono 15 persone che salgono sul palco e cambiano la scena. E questo lavoro immenso e prezioso va riconosciuto anche quando quelle persone non sono sul palco.


Il mondo fiabesco dei bambini è stato in qualche modo una costante nella tua vita: i primi lavori come animatrice, l’esordio a 19 anni con Disney Club, le serie TV per ragazzi. Oggi che sei due volte mamma, cosa diresti alla Carolina bambina?

Alla Carolina bambina direi “tira fuori la testa un po’ di più!”. Io sono sempre stata una bambina educata, che stava al suo posto, e questo ogni tanto mi ha portato a mettere da parte le mie esigenze. Quindi, tornassi indietro, forse mi direi “non stare zitta: se hai voglia o bisogno di qualcosa, dillo”. Però penso anche che finché sei bambino queste cose non le puoi capire: ci nasci, vai avanti così, poi fai analisi, rifletti su di te e cominci a tirare fuori tutto quello che hai tenuto dentro per anni. I bambini seguono il loro temperamento naturale. I genitori o chi li accudisce possono aiutarli, però credo che ognuno debba fare il suo percorso singolarmente, con i mezzi che ha e in cui crede. Prima o poi, l’occasione di affrontare quello che si ha dentro e avere un’evoluzione capita.

“Musicultura è una festa! Essere qui è un regalo.” – Intervista a Flavio Insinna

Preferisce definirsi artigiano piuttosto che artista, perché “gli artisti sono altri, essere un artigiano di buon livello è già un traguardo pazzesco”. Flavio Insinna fa bene il mestiere, lo onora, si sente fortunato di farlo, e fa tesoro degli insegnamenti del suo maestro Gigi Proietti. Tra esperienze di vita, insegnamenti, aneddoti, la passione per la cultura e per la musica, il conduttore di Musicultura 2023 si racconta alla Redazione di Sciuscià.

Flavio Insinna, attore sia di teatro che televisivo, conduttore di successo e scrittore di 3 libri; il suo essere artista a 360° si declina in varie forme grazie alla sua natura poliedrica: qual è il suo segreto?

Artisti sono Picasso, Frida Kahlo, Martin Scorsese, Sergio Leone; io non lo sono. Credo che si usi la parola “artista” con troppa generosità. Mi definisco “artigiano” secondo la definizione di De Chirico, che sottolinea l’importanza di fare bene il proprio lavoro qualunque siano il committente e la richiesta.
Essere un artigiano di buon livello è un traguardo pazzesco, il mio obiettivo è quello. Quanto alla mia natura, è poliedrica proprio perché faccio il mio mestiere come un artigiano si cimenta nella realizzazione di una sedia, di un tavolo o di un armadio. Non è facile: bisogna saperlo fare. Qual è il segreto? Continuare a studiare, essere curiosi, ascoltare gli altri e non credere di essere gli unici perché quando si pensa di aver capito tutto è un momento molto pericoloso: si rischia di sentirsi arrivati quando in realtà, anche se può sembrare una banalità, non si finisce mai di studiare, anche di sbagliare e di correggere i propri errori.

Mi ha colpito molto una sua frase in cui afferma che “la vita non è una gara e ci salviamo solo tutti insieme.” In un mondo che tende sempre più all’individualismo, come possiamo recuperare l’empatia che ci aiuta a essere solidali gli uni con gli altri?

Un po’ di tempo fa, leggendo, mi sono imbattuto in una frase di Maria Montessori, una donna straordinaria, che afferma una cosa semplice ma pazzesca: “Dobbiamo insegnare ai bambini a cooperare”. Siamo negli anni ’50 quando lo dice, ma ancora oggi a scuola la cooperazione non viene insegnata mai, anzi, si introducono concetti di gara e competizione. In questo periodo in cui mi capita di andare nelle aule a parlare de Il gatto del papa, una “favoletta” che ho scritto, i cui proventi vanno a sostegno di Emergency, ricordo sempre ai ragazzi che è proprio in questi anni di formazione che decidono chi vogliono essere: una persona pronta ad aiutare o una che pensa solo a fare il suo. Non siamo isole “autoconcluse”, “autorisolte”: siamo tutti un pezzetto di quella bellissima comunità che è il mondo, che è la vita. Lo straordinario maestro Bosso, che purtroppo ci ha lasciato, a Sanremo disse: “La vita è come la musica, si fa insieme”. Come qui a Musicultura: c’è chi presenta, chi aiuta, chi canta, chi porta il microfono, chi sposta qualcosa; c’è un esercito di persone che in un minuto ti fanno trovare tutto pronto: senza di loro non si potrebbero eseguire i brani perché i risultati, appunto, si raggiungono solamente tutti insieme.

“Benvenuti a teatro, dove tutto è finto ma niente è falso”, diceva Gigi Proietti. Quello con il suo maestro è stato un rapporto di grande stima professionale e personale: ce ne vuole parlare?

Ti racconto anche un’altra frase che ripeteva spesso Proietti ed è fondamentale: “Fare l’attore è un mestiere”. Lui di sé ridendo e alzando la mano diceva: “Sono un noto fantasista romano, se mi ascolti la scena viene ancora meglio”. E aggiungeva: “Ragazzi, è un mestiere, un gioco, non è uno scherzo!”. La differenza tra gioco e scherzo è importante: lo scherzo, per esempio, potrebbe essere un gavettone lanciato, che può anche far ridere, ma il gioco è un’altra cosa. Pensiamo al gioco del tennis, del pallone; pensiamo al gioco di guardie e ladri, dove ci si spara – grazie al cielo per finta – ma poi quando si cade a terra si deve sembrare morti veramente, deve sembrare vero. La differenza sta proprio nella finzione del gioco: se la finzione risulta falsa, il gioco è finito. Riprendo di nuovo le parole di Proietti: “La sfida è essere credibili, non probabili”. Ecco, “probabile” vuol dire che indossando una corona da re potrei improvvisarmi Riccardo III, ed è probabile, appunto, persino che riesca a interpretarlo. Ma si è davvero “credibili” solo quando dalla platea gli spettatori hanno la percezione che ciò che avviene sul palco è vero, è reale.

Ai microfoni di Radio 1 Rai ha dichiarato che la musica ha sempre fatto parte di lei e della sua famiglia. È forse questa sua passione ad averla spinta ad accettare il ruolo di conduttore di Musicultura 2023?

Essere qui è un regalo! Ho avuto la grandissima fortuna di crescere in un ambiente ricco di dischi e di libri, dove la cultura era molto presente, e ringrazio ancora una volta la mia famiglia per questo.
Posseggo dischi a 78 giri, quelli di ferro che pesano 28 kg (ride n.d.r.); ho il grammofono, i giradischi; da ragazzo mi dilettavo a fare il dj. La mia vita senza leggere e senza ascoltare musica non sarebbe possibile, non la sentirei mia. Per questo quando mi ha chiamato il mio grandissimo amico Matteo Catalano, che è un autore fantastico e una persona meravigliosa, per presentare Musicultura, ho accettato subito. Essere su questo palco è un regalo. Musicultura è una festa!

La seconda serata finale di Musicultura 2023

Musicultura 2023, atto secondo. O meglio: ultimo atto. Perché siamo alla finalissima del Festival e siamo pronti a scoprire, quindi, chi sarà il vincitore assoluto di questa edizione. Prima, però, i due conduttori, Flavio Insinna e Carolina di Domenico, introducono l’esibizione di Simone Cristicchi e Amara, che regalano al pubblico una commovente interpretazione di due brani di Franco Battiato, L’ombra della luce e La cura.
“Gli artisti devono scavare, conoscersi nel profondo, perché è lì che vive la vera essenza di ognuno”, spiega Amara. “Tutto parte da questo palco”, afferma invece Cristicchi, riferendosi alla sua vittoria di Musicultura nel 2005.

E a proposito di vittoria, a esibirsi, con L’ultimo piano, tocca alla prima vincitrice del Festival, Lamante, che invita i presenti in arena a intonare le note del ritornello del brano e a unirsi in coro, in quanto “la musica è comunità”. In risposta alle domande del pubblico, dice di identificarsi nel punk se per quest’ultimo intendiamo il saper essere caotici e uscire dagli schemi.
Il secondo artista in concorso è Simone Matteuzzi, polistrumentista, classe 2001. Con Ipersensibile si abbandona a un gioco di saliscendi musicali, dimostrando grande padronanza della voce e capacità di escursione vocale. “Mi è sempre piaciuto mischiare, far incontrare cose diverse – spiega – perché questa mescolanza rispecchia la diversità del genere umano”.

È poi la volta di AMarti, busker che quest’anno ha imboccato una strada non ancora battuta prima: quella per Macerata, direzione Sferisterio. Con il brano Pietra racconta la situazione di incertezza e fragilità, ma anche scoperta, che ha vissuto durante la pandemia. “Imbracciata la chitarra, ho cominciato a esplorare mondi musicali ed è venuta fuori questa canzone”, racconta.
Il quarto vincitore a salire sul palco è Zic. Con Futuro Stupendo, il cantautore fiorentino fa echeggiare un potente grido d’amore. In risposta alla curiosità del pubblico sul nome utilizzato nel suo profilo
Instagram, rivela che la sua più grande passione dopo la musica sono i motori e la Formula1. Dice di amare tutto ciò che è vintage, che sia una vecchia automobile o il suono lontano di una musica antica.

Un altro grande ospite della serata è l’autore di alcune delle più belle canzoni italiane di tutti i tempi: Mogol. Il maestro è accolto da una standing ovation cui risponde con semplici ma potenti parole sul suo modo di vivere il processo creativo: “Io non penso senza musica […], ho la mente libera e la musica mi suggerisce le parole, che poi seguono parte della mia vita e si collegano a un’emozione. Nasce tutto così”.
La scuola per autori e cantautori da lui fondata, il CET, è una fucina di talenti. È qui che ha incontrato Gianmarco Carroccia, noto interprete delle canzoni di Lucio Battisti, che lo raggiunge sul palco. Così segue un’intensa esecuzione di alcuni fra i più celebri brani a firma Mogol/Battisti – Emozioni, I giardini di marzo e Il mio canto libero – accompagnati dal suono arioso del mandolino.
Prima di salutare il pubblico, Mogol riceve un’onorificenza alla carriera per alti meriti artistici da parte delle Università di Macerata e di Camerino. “Una storia che sa di leggenda. Le sue parole uniscono le generazioni. Le sue immagini poetiche, frutto di fantasia ad alto tasso di creatività, sono capaci di coinvolgere chiunque con la profondità della leggerezza”: queste le motivazioni fornite sul palco dal Rettore dell’ateneo maceratese John McCourt.

Tornando ai vincitori in concorso, è il momento di Ilaria Argiolas. Con Vorrei guaritte io, parte dalle borgate romane e cerca di arrivare a tutti. Anche se preferisce far parlare la musica nella sua purezza, spiega che il brano vuole essere cura alla rabbia: “Credo che l’amore, quello vero, debba guarire”.
È la volta, poi, della salentina Cristiana Verardo. Subito dopo aver eseguito Ho finito le canzoni, afferma che l’emozione provata questa sera è la più grande ricchezza che porterà con sé di quest’esperienza. Prima di scendere dal palco, intona un canto tipico della pizzica che fa battere all’unisono le mani degli spettatori.
Segue cecilia con Lacrime di piombo da tenere con le mani. È una canzone densa di emotività che nasce dalla verità del dolore ed esprime la forza della fragilità: “Le lacrime di piombo – spiega – rappresentano la fine di un periodo non troppo felice della mia vita e con questo brano sono riuscita ad esprimere tutto questo dolore”.
Gli ultimi vincitori a esibirsi sono i Santamarea. Con il brano omonimo portano allo Sferisterio un mare di onde sonore e un canto di fratellanza. Pensano che la musica sia un sogno comune e che il modo per affrontare la tempesta emotiva delle cose che ci succedono sia farlo tutti insieme, in maniera corale.

Il primo riconoscimento consegnato durante la serata è il Premio Nuovo IMAIE, dal valore di 10 000 euro da investire in un tour e ad aggiudicarselo è Lamante.

Poi fa il suo ingresso in scena Ermal Meta,che si abbandona a una intensa interpretazione di Un tempo piccolo di Franco Califano. “La prima volta che ho ascoltato questa canzone mi sono sbriciolato e ricomposto in un modo nuovo”, commenta dopo l’esibizione.
 Accompagnato dallo Gnu Quartet, il cantautore esegue poi due brani del suo repertorio: Piccola anima e Mi salvi chi può. Prima di andare via, racconta il suo esordio come scrittore con Domani e per sempre, libro per cui ha dovuto pescare dentro di sé e riconnettersi con le proprie radici per raccontare la storia dell’Albania: “Sono dovuto andare a riaprire una stanza che era chiusa da tanti anni, di cui avevo perso le chiavi, e a un certo punto mi sono trovato costretto ad aprire quella porta e affrontare quello che c’era dentro”.

È il momento di consegnare un altro premio, la Targa della critica Piero Cesanelli. Ad aggiudicarselo sono i Santamarea.

L’ultimo attesissimo ospite della serata è Dardust, alias Dario Faini, pianista, compositore e produttore discografico. Con lui il volume si alza, il battito cardiaco sale, la pizzica salentina si mescola alla musica elettronica in un crescendo di tamburi. Le pulsazioni di tutti si sintonizzano su un’unica frequenza e lo Sferisterio esplode in una danza tribale collettiva.

È in questo clima di trepidazione che giunge l’atteso momento della premiazione finale. L’assegno Banca Macerata da 20 000 euro va ai Santamarea, vincitori assoluti di Musicultura 2023.

Musicultura 2023: Santamarea vince la XXXIV edizione del Festival

Non solo l’assegno Banca Macerata da 20 000 euro che li designa vincitori assoluti: i Santamarea, col brano omonimo, si aggiudicano anche molti degli altri riconoscimenti di questa XXXIV edizione del Festival.

A loro, infatti, sono andati il Premio per il Miglior Testo, da 2 000 euro, assegnato dalla giuria universitaria composta dagli studenti degli atenei di Macerata e Camerino, il Premio PMI – Miglior Progetto Discografico da 2 000 euro e il Premio della Critica dedicato a “Piero Cesanelli”, ideatore e co-fondatore del Festival, dell’importo di 3 000 euro.

Il Premio NuovoIMAIE di 10 000 euro, destinato alla realizzazione di una tournée, va invece a Lamante per la sua canzone L’ultimo piano.

Spazio poi a un’onorificenza volta a celebrare un incredibile percorso artistico, iniziato nel 1955 e arrivato fino a oggi con un successo che non è mai venuto meno: quello di Mogol.

“A Mogol, per il suo lavoro e la sua carriera di autore, editore musicale, difensore del diritto d’autore e formatore lunga oltre 60 anni, va la targa per Alti Meriti Artistici dell’Università di Macerata e dell’Università di Camerino”.

Il ritorno dei Santi Francesi a Musicultura

Per i Santi Francesi tornare a calcare il palco dello Sferisterio, a due anni dalla vittoria, è come tornare a casa. Il duo racconta alla Redazione di Sciuscià che dal 2021 a oggi sono cambiate tante cose, tranne loro. Un intervallo di tempo apparentemente breve scandito da ritmi frenetici, nuovi brani, nuove collaborazioni e tanta musica. Il loro ultimo EP, In fieri, racchiude il significato del loro progetto artistico, “in divenire”: convogliare un vento di cambiamento senza mai snaturarsi; evolvere di pari passo col mondo e non sentire mai di essere arrivati. Alessandro De Santis e Mario Francese sono due Giovani Favolosi – questo il titolo del brano con cui hanno vinto Musicultura nel 2021 – pieni di talento, energia e umiltà. Lo hanno confermato sul palco in occasione della prima serata finale del Festival; lo hanno confermato anche rispondendo alle domande di questa intervista.

Nel 2021 vincitori, oggi ospiti. Cosa si prova a ritornare a Musicultura dopo soli due anni? 

Stavo pensando a “soli due anni”. Due anni sono tantissimi, soprattutto per la mole di lavoro che abbiamo affrontato in questo arco di tempo; però, quando siamo rientrati allo Sferisterio di Macerata, abbiamo avuto l’impressione che non fossero mai esistiti. È bello perché è un po’ come tornare a casa. Questo Festival ci ha dato una spinta gigantesca, soprattutto a livello di invenzione. È stata una vittoria inaspettata, un crocevia importante per noi: ha sancito il cambiamento del nostro nome, di una serie di aspetti all’interno del nostro progetto, e di approcci alla musica e alla vita in generale. Ricordiamo Musicultura 2021 come un’esperienza estremamente formativa. Eravamo appena usciti da un anno e mezzo di Covid, di vuoto, di distruzione totale, e abbiamo avuto l’opportunità di suonare dal vivo. È stata la scintilla che ha riacceso in noi la voglia di fare musica e di farla ascoltare alle persone. Tornare da ospiti è un onore, e un’occasione per ringraziare tutti coloro che organizzano e portano avanti il Festival, che ci hanno accolto meravigliosamente in questo posto e che hanno apprezzato il nostro modo di essere.

Lo scorso dicembre avete vinto la sedicesima edizione di X Factor con il vostro inedito Non è così male. Come vi ha cambiati, artisticamente parlando, il vostro percorso al talent di Sky?

A dir la verità, artisticamente parlando, non ci ha cambiato tanto. Siamo arrivati a X Factor, abbiamo presentato la nostra musica e ci hanno detto che era carina, di continuare a proporla e vedere cosa sarebbe accaduto. Poi è successo che abbiamo vinto, è andata bene. Forse ci siamo un po’ velocizzati nella produzione e nella realizzazione delle cover. Ma la cosa figa è proprio che non siamo cambiati, che non ci hanno cambiato. È mutato un po’ il mondo attorno a noi.

Voi avete conquistato il pubblico semplicemente con la vostra musica, senza una sovraesposizione sui social e andando un po’ controcorrente rispetto a quello che vediamo e viviamo oggi. Pensate di essere solo un’eccezione, oppure siete la spia di un cambiamento dell’approccio del pubblico verso il mondo musicale?

Forse è ancora presto per dare un risposta certa. X Factor ci ha garantito la possibilità di non usare i social network perché in quel periodo eravamo costantemente in tv. A noi piacerebbe molto essere la spia di un cambiamento, non lo neghiamo; infatti un nostro desiderio sarebbe riuscire a fare questo lavoro senza il supporto dei social network. Non lo affermiamo per presunzione o per un qualche tipo di congettura, ma semplicemente perché non ci riteniamo capaci, e non abbiamo particolarmente voglia di appartenere a quel tipo di comunicazione.
Potrebbe essere prematuro, ma secondo noi, nella nostra generazione c’è un vento di cambiamento. Si inizia a percepire una sorta di distacco nei confronti del mondo digitale:
prima i social erano una novità, adesso forse questo tipo di realtà sta diventando un po’ monotona.

Mi ha molto colpito il nome del vostro EP, In fieri, locuzione latina che significa in divenire. Perché avete scelto questo titolo?

È stata una scelta abbastanza casuale: è nato come nome di un singolo, che poi alla fine non
abbiamo usato. Ci piaceva molto il significato di tale espressione, quindi, al momento di
scegliere in che modo intitolare l’album, ci siamo detti: “Perché non chiamarlo così?”. In Fieri ha un valore simbolico per noi, rappresenta un po’ quello che siamo: in continua evoluzione, in divenire appunto; guardiamo sempre molto lontano, verso un arrivo che in realtà non esiste, perché è il cambiamento quello che ci piace attuare in ogni singolo periodo della nostra vita.

La Noia è il vostro ultimo singolo, uscito appena una settimana fa. Che significato attribuite a questo stato d’animo?

Personalmente non abbiamo una risposta univoca a questa domanda: ci sono momenti in
cui la noia, se condita con ansia e altri sentimenti, viene vissuta in modo negativo, e altri in cui, se associata a uno slancio propositivo, può diventare il motore e la spinta per muoversi.
Nella canzone parliamo del fatto che in questo periodo, in cui è tutto molto veloce e pieno di stimoli, stiamo perdendo la capacità – che poi forse ci rende degli esseri umani singolari e unici quali siamo – di annoiarci. La Noia è un invito a oziare, a fermarsi un attimo, a guardarsi intorno, e a cercare di percepire quello che c’è nell’aria, che forse è molto più incredibile e assurdo di ogni viaggio che si possa fare.

Fabio Concato, tra milanesità ed echi di un’era di artisti anticonvenzionali

Protagonista indiscusso del cantautorato italiano degli ultimi cinquant’anni, autore tra i più affermati e apprezzati nel nostro Paese, Fabio Concato è stato tra gli ospiti di questa XXXIV edizione di Musicultura.  Non smetto di aspettartiTi ricordo ancora, Sexy tango, Fiore di maggio, Rosalina e Domenica Bestiale sono solo alcuni dei suoi brani più celebri che, nella serata di ieri, hanno incantato l’Arena Sferisterio. «Sono i testi e la musica che rendono grande una canzone», ha affermato sul palco. Per poi soffermarsi sulle canzoni degli 8 artisti che si contendono il titolo di vincitore assoluto del Festival: «I brani dei vincitori di quest’anno mi hanno trasmesso emozioni sincere. Sono tutti bravissimi!». Nel pomeriggio, dopo il suo soundcheck, abbiamo chiesto al Maestro di rispondere a qualche domanda. Con grande disponibilità è sceso con noi in platea e ci ha regalato tre bellissime risposte.

Ha affrontato il periodo del Covid facendo uscire il brano L’Umarell. Chi sarebbe questo “Umarell”?

Lo “Umarell” è in dialetto milanese quel personaggio un po’ anziano che tiene le braccia dietro la schiena e si ferma in ogni cantiere che vede. Il mio Umarell invece è un pupazzetto alto dieci centimetri che ricorda questa figura, solo che è in plastica. Me lo regalò un mio grande amico e lo avevo messo sulla tastiera sulla quale scrivo i brani. Ho avuto, vedendolo lì ogni giorno, quasi la sensazione che lui mi domandasse di scrivere qualcosa su questa tragedia che stavamo vivendo, e così ho fatto: la cosa curiosa è che per la prima volta ho composto un testo in dialetto. La canzone piacque molto, ma a distanza di due anni preferisco evitare di cantarla, per non riportare le persone a quel periodo.

L’esibizione

Lei è uno dei tanti artisti liberi e slegati da convenzioni che sono stati protagonisti della seconda metà del Novecento di questo Paese. Ora sembriamo vivere tempi diversi; cosa è cambiato secondo lei?

È cambiato completamente il mondo, semplicemente. Non penso che sia un cambiamento necessariamente in meglio, né in peggio. È cambiata soprattutto la musica, il modo di farla, di fruirne, i suoi canali di diffusione, e mi sembra che ce ne sia quantitativamente meno rispetto agli anni di cui parli tu. Se ci fosse più musica, ci sarebbero per forza di cose più artisti motivati a romperne le convenzioni.

Ci sono varie parentesi jazz nella sua carriera. Come si è avvicinato a questo genere?

Mi sono avvicinato al jazz da piccolissimo tramite mio padre, cantante e chitarrista, che lo ascoltava, suonava e amava moltissimo, per cui è stata una scoperta davvero naturale e spontanea. I primi artisti a folgorarmi sono stati americani come Bill Evans e Chet Baker, e brasiliani come Joao Jilberto o Antonio Carlos Jobim: loro e molti altri rappresentano un pezzo importante della mia vita. Se guardo a quest’ultima, essere cresciuto con il jazz è una delle tante cose per cui mi sento fortunato, per cui sono grato a mio padre.

Suoni, colori, sapori: il mondo visto con gli occhi di Gek Tessaro

Per la prima volta a La Controra uno spettacolo interamente dedicato ai più piccoli: “I Bestiolini”, una rappresentazione di Gek Tessaro tratta dal suo omonimo libro. Con fantasia e simpatia, l’illustratore veronese ha trasformato il Lauro Rossi in un’enorme tela su cui tracciare forme colorate e segni luminosi. A poco a poco, un microcosmo di vite minute – quelle degli insetti – ha preso vita e il teatro è diventato un prato fiorito. Un suggestivo intreccio di immagini, musiche e storie, che ha coinvolto non solo i più piccini, ma il pubblico tutto. Le parole chiave? Curiosità, osservazione e tanta sensibilità.
Nell’intervista rilasciata alla redazione di Sciuscià, l’autore ci invita a riflettere sul nostro rapporto con il pianeta e con le specie che ci circondano. Racconta la sua visione di un mondo possibile, migliore, per ora soltanto sognato, abbozzato nell’immaginazione con pennelli e colori.

I protagonisti dell’opera presentata a La Controra sono gli insetti, quel microcosmo animale che si nasconde sotto ai prati, spesso temuto da adulti e bambini. Qui però si trasformano in simpatiche “bestioline”. Il modo con cui scegliamo di narrare il mondo che ci circonda quanto influenza il nostro rapporto con esso?

Lo può influenzare molto. Il nostro problema è che non siamo consapevoli del mondo che ci circonda, perché pensiamo di essere il centro del mondo. Di conseguenza, pensiamo agli esseri viventi intorno a noi come sgradevoli e fastidiosi. Facciamo una piccola riflessione: si sente dire spesso che, se mancassero le api, non mangeremmo più le mele e le arance. La verità è che, se mancassero le api, noi avremmo pochi anni di vita e a sparire non sarebbe la frutta, ma il genere umano. Se cominciassimo a vedere le cose da questo punto di vista, percepiremmo diversamente anche le api e ci accorgeremmo che mantengono in equilibrio l’ecosistema e in vita la specie umana. Pensare alle api come a dei “bestiolini” che danno fastidio, mordono, pungono, significa avere una visione distorta della realtà. Non ci rendiamo conto che stiamo distruggendo il pianeta. Il mio lavoro è mettere a fuoco, far vedere, far osservare le cose e il mondo da un altro punto di vista. L’umana specie ha questo grande problema: che ha un unico punto di vista, il proprio.

Nelle sue produzioni la parola chiave è curiosità, ma affinché ci sia questa è necessario fermarsi e saper osservare. Il mondo adulto però, preso dalla frenesia, ha un po’ perso questa capacità. Qual è il segreto per mantenerla viva?

Il segreto per mantenerla viva è molto semplice, è racchiuso nella riflessione che facevo prima sulle api. Ti faccio un altro esempio: ieri, mentre davo da bere ai fiori, mi sono accorto di avere un ragno sul braccio che cercava una via d’uscita; a un certo punto si è buttato sullo spruzzo dell’acqua, è precipitato dall’altra parte e poi ha cominciato a camminare tranquillamente. Ecco, se si osservano queste piccole cose, si comincia a pensare: “Sai che c’è, questa cosa qui è fantastica! Non so niente dei ragni, voglio saperne di più!”. È questo non saper niente – rendersi conto di non sapere niente e meravigliarsi del mondo che ci circonda – che può far nascere la curiosità.

Nelle sue rappresentazioni si intrecciano linguaggi diversi: immagini, narrazione e musica. Ce n’è uno in particolare che prevale sugli altri o sono tutti elementi imprescindibili?

Sono tutti elementi imprescindibili. La nostra vita, quella del pianeta, quella degli animali sono intrecci di elementi e linguaggi diversi: suoni, odori, sapori, colori, aria, freddo, caldo. La vita è questa cosa qui.
Quindi, quando si racconta una storia, bisogna includere tutti questi elementi complementari. Quando scrivo, penso alla musica, e quando penso alla musica ho già in mente quali parole scrivere e quali immagini proiettare. Senza la musica, le immagini non stanno su. Solo insieme, le due dimensioni acquistano senso e significato: è un unicum, un’unica narrazione che prende forma.

Le sue opere nascono dall’esigenza di comunicare qualcosa in particolare, una morale o un insegnamento? Se sì, cosa?

Preferirei che non fosse così, ma la verità è che ognuno di noi ha qualcosa da dire: qualcosa che non ci piace, che ci piace o che vogliamo comunicare. Se si ha il privilegio di poterlo fare su un palco o con un libro, sorge spontaneo dire qualcosa che si ha a cuore. Per cui, sebbene non sia la mia intenzione, è giocoforza naturale che io dica delle cose che toccano la mia sensibilità e fanno parte della mia vita.
Non vorrei mai fare prediche e non le faccio, ma inevitabilmente parlo dei temi che mi interessano e trovo importanti, sperando che tocchino anche le sensibilità altrui.

Dal suo sito web si legge che il suo teatro disegnato è destinato sia ai bambini che agli adulti. Secondo lei, c’è una distinzione tra spettacoli per adulti e spettacoli per bambini?

Le “cose per adulti” sono spesso e volentieri quelle di cui non si può parlare. C’è il cinema per adulti, per esempio, che parla di cose un po’ tristi. Ecco, per me l’unica differenza è questa: ci sono aspetti della vita dei grandi che i bambini non riescono a cogliere, e viceversa. Detto questo, però, l’idea di una separazione netta per età tra spettacoli per bambini piccoli, spettacoli per bambini più grandi e spettacoli per adulti, a mio parere non ha senso. È inutile tracciare confini. Io ho 60 anni e propongo ai bambini le musiche che piacciono a me, non quelle che secondo il senso comune sono adatte ai bambini. Non do loro caramelle né faccio versi buffi. Tendo ad annullare le distanze e a far sì che quello che racconto possa piacere sia agli uni che agli altri, a diversi livelli. Naturalmente racconto delle cose che possano far ridere i bambini, che vedono solo il ranocchietto che salta, ma nel testo si nasconde qualcosa che porta anche l’adulto a riflettere. Credo che nei libri ci siano diversi livelli di comprensione.

INTERVISTA: Paola Turci ospite allo Sferisterio

Con una lunga carriera alle spalle, iniziata negli anni 80, quando non era ancora ventenne, Paola Turci rientra senz’ombra di dubbio nel novero delle maggiori figure di riferimento del panorama musicale italiano. La sua voce, profonda e intensa, si presta perfettamente all’attività di cantautrice minuziosa nella scelta delle parole per i suoi brani – a volte delicati e commossi, altre decisi e pungenti –, e a quella di interprete profonda e viscerale. La dimensione live è quella che ama di più e ben quattordici sono gli album registrati in studio. Eppure la carriera dell’artista romana non è fatta solo di canzoni: queste si intrecciano a una passione vivace per la recitazione, un tour teatrale in moltissime città italiane e, soprattutto, un introspettivo cammino personale lungo il quale si riscopre una donna forte e fragile allo stesso tempo. Questa relazione ossimorica tra i due aspetti del suo carattere – in realtà perfettamente coerente – deriva dal suo continuo confronto con le insicurezze, con cui non ha paura di trovarsi da sola faccia a faccia. Alla redazione di “Sciuscià” ha raccontato come, da questi presupposti, si può arrivare ad apprezzarsi e valorizzarsi, superando in propri limiti.

La sua carriera la vede legata particolarmente a un palco molto importante, quello di Sanremo; ben nove le partecipazioni al Festival, tra cui una vittoria con il brano Bambini e tre Premi della Critica. Cos’è cambiato dalla prima alle successive partecipazioni?

Qualcosa cambia sempre. Sono molto legata al Festival di Sanremo e ogni partecipazione ha avuto qualcosa di speciale, è stata unica. Ovviamente, l’occasione in cui si vince è diversa da quella in cui si perde: momenti differenti, sì, ma non così lontani come si può pensare perché quel palco è in grado di regalarti costantemente un insegnamento: qualunque sia il risultato, è sempre un momento di crescita, di confronto con l’altro e con se stessi molto importante.

L’esibizione

Il suo percorso musicale si intreccia con un cammino personale di crescita e accettazione che trova massima manifestazione nel monologo Mi amerò lo stesso; ne viene fuori l’immagine di una donna consapevole che, nel corso della sua evoluzione, si scopre forte e determinata. È così? Qual è, dall’altra parte, il suo rapporto con le insicurezze?

Anche se da fuori posso sembrare una donna forte e determinata, non è sempre così: è un aspetto del mio carattere ma in pochi momenti riesco a essere realmente sicura di me. In realtà sono piena di insicurezze con cui, però, ho un rapporto bellissimo: sono la mia benzina, vado avanti a paure e fragilità. Può sembrare una contraddizione, ma è proprio nei momenti di incertezza che mi costruisco e trovo la forza; diciamo che la mia è un’accezione particolare dell’ottimismo: qualsiasi cosa accada, in questo modo riesco sempre a trovare un elemento da cui ripartire più decisa di prima.

Continuando a parlare di consapevolezza e del rapporto che ognuno di noi ha con se stesso: spesso purtroppo, soprattutto fra i giovani, è difficile e conflittuale la relazione con lo specchio, con la propria immagine, con i canoni sociali. Come, secondo lei, è possibile imparare a volersi più bene?

Non è un percorso facile e non sarei onesta se vi dicessi semplicemente “Vogliatevi bene”: sono stata la prima a non averlo fatto per molto tempo. Nel corso degli anni ho imparato ad apprezzarmi e, dunque, ho avuto dei momenti di affetto verso me stessa, senza i quali non sarei arrivata qui, come sono oggi. La cosa particolare è che il modo di volersi bene è incredibilmente vicino a ognuno di noi, talmente vicino che rischia di scivolarci dalle mani, lo abbiamo addosso: è nel corpo, nella mente, nella propria materia interiore e nei propri sogni. Siamo noi stessi a sabotarci il più delle volte, ma la cosa positiva è che tutto sta nelle nostre mani e la decisione di cambiare è di ognuno di noi, però bisogna imparare a vedere solo quello che è davvero importante.  Non credo che ci sia una ricetta precisa per farlo; sicuramente ai giovani direi di guardare i più grandi, i maestri, quelli che hanno fatto molta strada. Infatti, solo attraverso l’esperienza ci si rende conto che esiste una soluzione. Probabilmente è una questione di tempo, ma la chiave si trova sempre.

Oltre alla musica, nota è la sua passione per il teatro, nel quale si è già sperimentata come attrice. Tra l’altro, l’abbiamo vista nella giura del Festival di Locarno e della Mostra del Cinema di Venezia. C’è un legame tra l’attività di cantautrice e questo interesse per la recitazione? Avremo l’occasione, in futuro, di vederla di nuovo nei panni di attrice?

Fino all’anno scorso ho fatto tappa in moltissime città con il monologo teatrale Mi amerò lo stesso, per l’appunto, che riprenderò a dicembre. La passione per la recitazione è nata quando ho conosciuto un’insegnante di teatro, Beatrice Bracco, che abbiamo perso qualche anno fa; avevo frequentato la sua accademia teatrale a Roma per un anno, poi ho avuto un grave incidente stradale ed è cambiato tutto. Si erano sviluppati un vero e proprio interesse e una curiosità nello studio dei vari attori e personaggi che mi avevano letteralmente incantata. Era – e lo è tutt’ora – una passione fortissima. C’è stato un periodo in cui facevo tantissimi provini: quindici giorni prima dell’incidente, ad esempio, ero a Cinecittà per un provino con Ettore Scola per un suo film, non mi prese. Poi, dopo l’incidente, ho dovuto interrompere questa esperienza che è stata unica e incredibile; nonostante tutto non ho mai smesso di amare il teatro! Negli anni ho capito che, personalmente, da attrice, preferisco il teatro al cinema. È come il live: c’è qualcosa che è unico, appartiene a quel momento e a quella sera, dunque non si ripeterà. Ci saranno, sì, repliche ma non di quel preciso istante. Registrare, dunque, non è una cosa che mi piace molto; per lo stesso motivo, amo più il live che fare i dischi.

Come abbiamo detto, di palcoscenici ne ha calpestati molti; stasera è la volta dello sferisterio di Macerata, in occasione delle serate finali di Musicultura. Prima di un’esibizione, per prepararsi a salire sul palco, ha qualche rito particolare?

No, non ho riti, non ci credo. Invece, credo nel riscaldamento della voce, negli esercizi e nel rimanere leggeri prima di un’esibizione: magari mi berrei anche un bicchiere di vino prima di salire. Per me, la componente più importante è la consapevolezza di quello che andrò a fare.

 

La prima serata finale di Musicultura 2023

Musicultura 2023 atto primo. In scena la prima serata delle finali di Musicultura, da trentaquattro anni punto di riferimento autorevole e trasparente per i giovani che si dedicano all’arte della Canzone. A fare da padroni di casa all’Arena Sferisterio due conduttori d’eccezione, Flavio Insinna e Carolina Di Domenico, volti amatissimi della televisione italiana. «Proprio duecento anni fa – ricorda Insinna – l’architetto Ireneo Aleandri iniziava la progettazione dello Sferisterio. Ecco cosa succede quando l’uomo edifica per il bene, il bello e la cultura». Grande assente della serata: Chiara Francini che manda un saluto affettuoso e conferma la sua partecipazione alla prossima edizione del Festival.

Si entra nel vivo della serata e la prima vincitrice a esibirsi è Cristiana Verardo con la sua Ho finito le canzoni. L’artista salentina spiega quanto sia importante accogliere gli spazi vuoti e i silenzi per rinascere. Nella canzone racconta un conflitto di parole tra due che si sono lasciati e cercano di ricominciare. «La resa non è debolezza – dice – ma una forma di consapevolezza che il conflitto non fa bene a nessuno». È il turno dell’energia e il rock di Zic con Futuro stupendo. Emozione, ricerca e cuore: queste sono le parole usate dall’artista toscano per raccontare e descrivere quello che c’è alla base del suo progetto artistico fatto di continuo studio e sperimentazione.

A salire sul palco dello Sferisterio ora è la prima ospite della serata: Paola Turci. Tanta è l’emozione che trasmette al pubblico interpretando Povera patria di Franco Battiato. «Tornare qua – dice – è meraviglioso e cantare le canzoni di Battiato è un tentativo per riempire la grande assenza lasciata dal Maestro». Membro del Comitato artistico di garanzia, Turci esprime tutta la sua soddisfazione per la presenza di valide proposte femminili in concorso e saluta l’Arena Sferisterio con i suoi brani Fiori di ghiaccio e Bambini.

I riflettori tornano sui vincitori. La grinta e la ‘disperazione artistica’ di Ilaria Argiolas dominano la scena. L’artista romana di origini sarde porta sul palco la sua Vorrei guaritte io. Un grido di amore puro e coinvolgente. I quarti a salire sul palco sono i Santamarea, tre fratelli e una sorella acquisita che con la loro omonima canzone Santamarea, portano a Macerata i colori, le immagini e le meraviglie della loro splendida Sicilia. È il turno di cecilia con Lacrime di piombo da tenere con le mani, un connubio – sostiene l’artista – tra la parte super fragile e la parte più forte che convivono in ognuno di noi. Con L’ultimo piano, la sesta vincitrice a esibirsi è Lamante. L’artista veneta coinvolge il pubblico nella sua performance. «L’obiettivo della mia musica – dice – è quello di creare comunità. Bisogna cercare di guardarsi negli occhi dell’altro, per non finire ‘nelle nostre case sempre più piccoli’». Segue Simone Matteuzzi con il brano Ipersensibile. L’artista milanese invita gli ascoltatori ad accogliere la bellezza e la fragilità dell’animo umano e a rimanere vigili per non cadere nelle dannose conseguenze di una sensibilità portata all’estremo. L’ultima vincitrice a esibirsi è AMarti. La sua Pietra manifesta tutta la forza della fragilità umana. «Ciò che ci rende fragili – dice – al tempo stesso ci dà grande forza e slancio vitale».

Alla fine delle esibizioni degli otto vincitori, un commosso ricordo coinvolge ed emoziona ora lo Sferisterio. Il pubblico si scioglie in un affettuoso applauso nel ricordo di Fabrizio Frizzi, storico conduttore e amico fraterno di Musicultura. Dopo questo sentito momento, a salire sul palco è il secondo ospite della serata: Fabio Concato che con Non smetto di aspettarti, Ti ricordo ancora, Sexy tango, Fiore di maggio, Rosalina e Domenica Bestiale, incanta i presenti in Arena. «Stasera ho sentito delle voci straordinarie. I ragazzi sono stati fantastici, spigliati, micidiali» afferma e continua «Se il successo non dovesse arrivare subito non vi preoccupate, andate sempre avanti, siate caparbi, non mollate, insistete finché è possibile”.

Segue Rachele Andrioli, rappresentante della musica popolare italiana nel mondo che assieme alle Coro a Coro esegue La canzone popolare di Ivano Fossati seguita da Fimmana da mare, in una performance mista tra canto e danza. Gli ultimi ospiti della serata sono i Santi Francesi, vincitori assoluti della XXXII edizione di Musicultura che tornano a esibirsi sul palco dello Sferisterio con i brani Giovani favolosi, Ragazzo di strada e l’ultimo singolo La noia. «Questi due artisti – ricorda Carolina Di Domenico – sono la dimostrazione che la musica italiana può e deve sempre rinnovarsi».

Ai Santamarea stasera vanno il Premio Miglior Progetto Discografico finanziato dalla PMI e la Targa per il Miglior Testo assegnato dalle studentesse e dagli studenti dell’Università di Macerata e dell’Università di Camerino.


 

INTERVISTA: Collettivo Rosario a La Controra 2023

Nuovo appuntamento de La Controra al cortile di Palazzo Buonaccorsi. Protagonista, stavolta, è il Collettivo Rosario, nato dall’incontro tra persone provenienti dalle esperienze più diverse e, per questo, sfuggevole alle definizioni. “Fio Azul”, portato in scena in occasione di Musicultura 2023, è uno spettacolo ricco di emozioni che coinvolge attivamente il pubblico, non più semplice spettatore ma parte integrante della performance. Qui la nostra intervista agli artisti dell’ensemble.

Musicisti, performer, danzatrici, attrici: il Collettivo Rosario si definisce “un esercizio di migrazione, di sincretismo, di amicizia”. In che modo gestite i momenti di confronto? Riuscite sempre ad armonizzare le vostre differenze?

Con l’ascolto e la cura dell’altro. Non bisogna evitare i momenti di conflitto, ma avere il coraggio di abbracciare la rabbia e capire lo spazio che richiede, cercando di invocare la generosità che abbiamo dentro di noi per superare le situazioni difficili. Non sempre, però, riusciamo a trovare una soluzione nell’immediato: a volte preferiamo restare in silenzio e aspettare il tempo migliore per il confronto.

Nella vostra bio scrivete che ciascuno di voi ha sempre avuto un occhio al mondo dell’educazione e dell’insegnamento. Il potere formativo e inclusivo del teatro è stato evidenziato da molti studiosi, tra cui Paulo Freire, che ispirò il “teatro dell’oppresso” in Brasile. In quale misura secondo voi la musica, l’arte, il teatro possono migliorare la qualità della vita delle persone?

Vi invito a guardare il film “La caverna dei sogni dimenticati” di Werner Herzog che racconta della scoperta di pitture di trentamila anni fa in una caverna nel sud della Francia. Queste immagini incredibili ci fanno capire quanto sia profonda e radicata la voglia di comunicare dell’essere umano. La musica, l’arte, il teatro possono migliorare la qualità della vita delle persone proprio grazie alla loro natura comunicativa che le rende un ottimo mezzo per l’espressione e il dialogo. La voglia di comunicare del Collettivo Rosario non nasce da una ricerca dell’originale, troppo lontano nel tempo, quanto da un processo dialogico di confronto che raccoglie l’eredità del passato e tenta di rinnovarla con i linguaggi che abbiamo a disposizione.


La Body Music considera il corpo come mezzo espressivo e comunicativo. Quanto conta la comunicazione non verbale in un mondo sempre più interconnesso?

Anche se la parola è un elemento assolutamente fondamentale nella nostra società, abbiamo a disposizione mezzi molto diversi per esprimere il nostro pensiero: i suoni, i gesti, persino il silenzio può diventare una forma di narrazione. Al giorno d’oggi pratichiamo poco questi modi di comunicare con gli altri: viviamo in un mondo dove tutto è troppo veloce, dove sembra non esserci più spazio per il silenzio e l’ascolto. L’essere sempre di fretta schiaccia questi momenti di sospensione.

L’inclusione e l’integrazione sono due temi cruciali dei nostri tempi. Quali sono secondo voi i punti di contatto tra la cultura popolare brasiliana e la tradizione italiana?

Sicuramente il linguaggio ci accomuna moltissimo, basta pensare a quante parole in portoghese abbiano una traduzione simile italiano: abbraccio-abraço, bacio-beijo, amore-amor, petto-peito. La nostra storia risente molto dell’influenza europea, infatti i brasiliani hanno vissuto un lungo periodo di colonizzazione portoghese. Sebbene le radici latine siano assolutamente presenti, la cultura brasiliana è decisamente più complessa: siamo anche indigeni e siamo anche figli degli schiavi africani.

Presentate a Macerata lo spettacolo “Fio Azul”, che voi stessi avete definito come “una ricerca che mira a ibridare diverse discipline” e “a portare il pubblico a essere parte integrante della performance”. Quali elementi in comune percepite tra “Fio Azul” e Musicultura?

Ogni festival rappresenta un momento di condivisione del tempo e dello spazio tra performer e spettatori attraverso il canto, gli sguardi, l’ascolto e i silenzi. Questo interscambio continuo è uno degli elementi peculiari di “Fio Azul”, una ricerca di presenza, intuito e forza collettiva che vuole prendere per mano il pubblico. Musicultura è un terreno fertile per un’interazione amichevole tra gli artisti e il pubblico, una celebrazione della diversità che permette a tutti di esprimersi.